Io, un ragazzo della scuola Diaz, 20 anni dopo ho le idee più chiare

Io, un ragazzo della scuola Diaz, 20 anni dopo ho le idee più chiare

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Al momento di marciare

molti non sanno

che alla loro testa marcia il nemico.

La voce che li comanda

è la voce del loro nemico.

E chi parla del nemico

è lui stesso il nemico."

Bertold Brecht

“Il nemico”.

AVEVO SOLO 26 ANNI

 

Avevo 26 anni. Credevo che questo mondo si potesse aggiustare. Credevo di essere dalla parte giusta. E credevo di aver ben chiaro chi fossero i miei nemici.

Solo qualche mese prima, a gennaio, George W. Bush si era insediato alla Casa Bianca per il suo primo mandato da presidente degli Stati Uniti. Quel giorno mi trovavo a San Francisco, avevo partecipato ad un’imponente manifestazione che protestava, ormai inutilmente, per i brogli con cui, aggiudicandosi la Florida, solo un paio di mesi prima i Repubblicani avevano strappato la vittoria ad Al Gore.

Ma anche in Italia le cose non erano andate nel modo sperato. Silvio Berlusconi era stato da poco eletto presidente del consiglio, vincendo le elezioni con il centro-destra. E sembrava qualcosa di inaudito. Dalle elezioni anticipate del 1996 in poi, quelle che avevano chiuso prematuramente la prima esperienza berlusconiana al governo, avevamo pensato che mai più un personaggio del genere avrebbe governato l’Italia. Ancor meno gente come Umberto Bossi o Gianfranco Fini.

Eppure quella sinistra aveva già fallito il proprio mandato storico, o perlomeno quello che io pensavo lo fosse. Nella primavera del 1999 l’Italia aveva preso parte ai bombardamenti sulla Jugoslavia, concedendo le proprie basi all’Alleanza Atlantica che, sorvolando l’Adriatico, aveva messo in ginocchio quel che rimaneva del Paese balcanico. 

Massimo D’Alema aveva toccato un punto di non ritorno con quella scelta. Aveva stracciato l’articolo 11 della Costituzione Italiana: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

“Ci sono i trattati internazionali a cui abbiamo aderito e che dobbiamo rispettare”, dicevano.

Ma che significato avessero quei trattati in quegli anni, alla fine degli anni ’90, in molti se lo domandavano.

Negli anni precedenti avevo viaggiato spesso nella ex-Jugoslavia. Ero stato in Bosnia diverse volte. Avevo dato vita a progetti di gemellaggio. Nel dicembre del 1998 ero stato in Kosovo, facevo interposizione nonviolenta tra l’esercito iugoslavo e i ribelli albanesi dell’UCK, nei villaggi della campagna teatro di eccidi.

Ero tornato con molti contatti. Quando pochi mesi più tardi cominciarono i bombardamenti, li chiamavo al telefono, registravo le conversazioni e le trasmettevo alla radio.

Quando Bush e Berlusconi, a distanza di pochi mesi, avendo entrambi vinto le elezioni, si diedero appuntamento a Genova, la direzione che il mondo stava prendendo proprio non mi andava.

Ma la sinistra in Italia aveva meritato quella sconfitta, gettando alle ortiche la propria identità, il proprio senso nella Storia.

Per questo ci doveva essere un’altra sinistra. Una sinistra che forse non aveva piena rappresentanza in parlamento, ma che era viva e fatta delle storie e delle sensibilità di chi non si voleva piegare ai nuovi principi del mondo uscito dal crollo dell’Unione Sovietica. In fondo, erano passati solo 12 anni. C’era ancora il modo e il tempo per cambiare rotta. Ci doveva essere. Avevo solo 26 anni. Per questo andai a Genova.

 

VIDEOATTIVISTA

 

Da qualche mese mi ero trovato quasi per caso a diventare video-attivista (così ci chiamavamo allora). La videocamera digitale, tra le prime allora, non era nemmeno la mia. All’Università Bicocca di Milano c’era allora un Laboratorio di Sociologia Visuale, uno dei primi in Italia. Ci ero capitato per caso e sempre per caso mi ero trovato con una videocamera in mano.

“Vuoi venire a fare riprese al G8? Ci sarà bisogno di filmare tutto il possibile”.

E fu così che mi ritrovai a ritirare un “pass” per la zona rossa a inizio di quella settimana, già il 16 luglio. Un manipolo di noi era stato scelto per accreditarsi ufficialmente ed avere libertà di movimento in città.

Nel corso di qui giorni con stupore e sconcerto scoprimmo cosa intendessero per “zona rossa”. Furono alzate delle inferriate alte diversi metri che poggiavano su blocchi di cemento per delimitare la zona del porto e parte del centro di Genova. Mentre questi militarizzavano Genova, noi ci militarizzavamo a nostro modo. 

Non c’è dubbio che anche noi, in qualche modo, giudicassimo la nostra come una militanza, una lotta, una battaglia. Ma era il “Media center” il nostro quartiere generale, quelle erano le nostre armi: le videocamere. L’informazione indipendente. “Become your media” (diventa l’organo di informazione di te stesso, a tua volta) era la nostra filosofia.

Ma non era solo un’attività di denuncia quella di riprendere, serviva anche a documentare. Sì, perché in quei giorni, sotto l’ala protettrice del “Genoa Social Forum”, si tennero diverse iniziative e manifestazioni pacifiche certamente di spessore. Nulla accadde, relativamente all’ordine pubblico. Tutto si svolse senza tensioni, anzi, con una certa euforia data dall’importanza dell’evento e dalla gioia di vedere così tante persone, realtà, organizzazioni, confluite da tutto il mondo per unirsi alla lotta.

Certo, c’erano elicotteri che sorvolavano a bassa quota, agenti in borghese agli angoli delle strade che a loro volta riprendevano i cortei. C’era sempre un orizzonte di poliziotti e camionette da qualche parte. C’erano anche leggende metropolitane che spuntavano proprio per non farti abbassare la guardia. Ma a più di uno di noi in quei giorni venne da pensare se non avessero speso inutilmente tutti quei soldi per la militarizzazione della città. 

Per quanto mi riguardava il canovaccio dell’evento poteva finire lì. Loro rinchiusi come dei ladri in gabbia dentro la zona rossa e noi liberi fuori ad incontrarci, parlarci, immaginare quello che allora veniva chiamato “l’altro mondo possibile”.

 

LA STRATEGIA DEL SET CINEMATOGRAFICO

 

Ma questa non era la strategia di tutti. Sì, c’erano stati gli scontri a Napoli il marzo precedente, governo Amato, centro-sinistra, prima delle elezioni. E qualcuno si era chiesto se non stesse già cambiando il vento. Certo il G8 avrebbe posto l’Italia sotto i riflettori mondiali e il nuovo governo Berlusconi, facendo gli onori di casa al nuovo governo americano Bush, non avrebbe potuto tollerare disturbi o interferenze da parte dei manifestanti. Ma, in tutta sincerità, fino a venerdì 20 luglio, quel giorno maledetto, dopo una settimana di sfilate pacifiche per la città, non sentivo nell’aria quella necessità di scontro che poi deflagrò da lì a poche ore.

Noi si andava dentro e fuori la zona rossa, con il pass. In realtà ci andavamo al mattino. Per guardarsi un po’ intorno, visitare alcuni luoghi sacri, scorgere qualche personaggio importante e soprattutto rifocillarci agli immensi buffet che abbondavano di cornetti, marmellate, uova sode e ogni altra amenità. Tanto poi si stava digiuni fino alla sera.

Conoscevo bene la strategia delle “Tute bianche”. I “Padovani” avevano molta presa all’epoca sull’ambiente milanese, soprattutto in termini di gestione della piazza. Da inviato di Radio Onda d’Urto a Milano, con cui avevo collaborato nei due anni precedenti, mi ero fatto ormai una certa esperienza di scontri con la polizia. Io con il telefono in mano, tra il ’99 e il 2001, a raccontare chi si menava e gli altri, appunto, a menarsi. 

Menarsi. Forse era una parola grossa. C’era sempre molto lavoro preparatorio di comunicazione. L’identificazione di un obiettivo simbolico, di una vittoria politica di Pirro. Quello era il faro. Poi molta retorica, molti muscoli o muscoletti in bella mostra. Apparente irriducibilità con le forze dell’ordine e con il “Potere”.

Poi, quando la temperatura era a puntino, qualcuno si sganciava, si appartava con i vice-questori, si trattava una via d’uscita, brandendo la parole come fossero i manifestanti ad avere il coltello dalla parte del manico, si concordavano persino i minuti di quanto sarebbero dovuti durare gli scontri. Pronti, via. Chi doveva filmare, filmava. Chi doveva scattare foto, scattava. Finita la “gentil tenzone”, i manifestanti indietreggiavano allo sparo dei fumogeni, i poliziotti facevano altrettanto, si ricominciava a parlare e infine l’epilogo: la delegazione. 

Qualcuno scelto tra i manifestanti, in numero maggiore o minore a seconda del successo della trattativa, varcava un’immaginaria linea rossa che fosse andare sotto a un palazzo a stendere uno striscione, oppure entrare nel centro di detenzione per stranieri di via Corelli o cose simili. Era un’azione simbolica. La polizia manteneva l’ordine. I manifestanti sublimavano in fretta l’impotenza, trasformandola in successo politico. I media indipendenti avevano materiale forte tratto dagli scontri, il circuito ufficiale a sua volta ci ricamava sopra, ognuno restava della sua idea e tutti erano contenti. 

Era una formula che funzionava, per tutti. Era collaudata. E a Genova fu riproposta. Genova doveva essere la Woodstock del modello padovano.

 

LA CONTRADDIZIONE

 

“Violeremo la zona rossa” ripeteva da settimane Luca Casarini, capo delle “Tute bianche”. Vittorio Agnoletto, responsabile del “Genoa Social Forum” non lo diceva da parte sua. Ma erano tutti dalla stessa parte, no? Il primo era deciso a rendere il G8 il momento fondativo della sua egemonia sul panorama nazionale dei centri sociali e della sinistra antagonista italiana. Il secondo aveva basato la sua credibilità sul fatto che tutto ciò che Casarini proclamava non accadesse. Ma erano entrambi dalla stessa parte, no?

Eravamo stati in molti ad accorgercene di questa contraddizione. Ma i più di noi stavano con Casarini. Era una strategia. I contenuti andavano bene, ma serviva anche un evento plastico che simbolicamente bucasse il video delle nostre videocamere e proiettasse quei contenuti attraverso gli organi d’informazione ufficiali. Era una strategia di mimetismo.

Quest’illusione durò fino alle 14.53 di venerdì 20 luglio 2001, quel giorno maledetto.

In quel momento venne già tutto, come un castello di carta. Anche se qualcuno oggi, 20 anni dopo, cerca ancora pateticamente di rimetterlo in piedi.

 

UN SENSO DI FASTIDIO

 

Quella mattina mi alzai con un senso di fastidio. In quei giorni avevo dormito sul camper di un amico. Avevo fatto la spola con la mia motocicletta tra i cortei e il “media center”, per consegnare le riprese e lasciare ad altri che le caricassero in rete.

Il “media center” era stato allestito all’interno della scuola “Pascoli” in via Battisti, quartiere Pegli, in altura, lontano dal centro e dal luogo dei cortei.

Ogni piano, ogni aula della struttura erano stati affidati a organizzazioni, movimenti, giornali, radio e riviste italiane ed internazionali che, condividendo gli obiettivi del “Genoa Social Forum”, ne avessero fatto richiesta. 

Di fronte alla scuola “Pascoli”, dall’altro lato della piccola stradina, stava la scuola “Diaz”. Qui non vi erano computer, linee telefoniche, redazioni in trasferta, via vai di macchine fotografiche, videocamere. Era un dormitorio per i manifestanti giunti a Genova che non avevano trovato un posto dover stare altrove. Soprattuto gli stranieri.

In quei giorni non ci ero mai entrato. Io dormivo in camper. Quando stavo da quelle parti, stavo nella scuola “Pascoli”, nell’aula dei Milanesi, a scaricare materiale, ricaricare batterie, scambiare due battute e poi ripartire.

Quella mattina uscendo dal camper provai un senso di fastidio. Le presenze a Genova erano aumentate a vista d’occhio. Ora c’era gente ovunque per le strade, gente nuova, appena arrivata. C’era anche confusione, fregola.

I nuovi arrivati erano un sostegno a quello che stava facendo in quei giorni, accorsi per il gran finale. Sì, ma chi erano? Erano dei nostri. Sì, ma chi erano? Eravamo tutti coloro che non sono il G8, eravamo il resto del mondo che non è d’accordo. Questo bastava sapere.

 

VIA TORINO ERA UN SET PERFETTO

 

Non presi nessuna istruzione quel mattino. Non feci in tempo nemmeno a fare colazione nella zona rossa. Troppa tensione nell’aria, troppo caos, troppa gente ovunque. Mi misi a fare avanti indietro su corso Torino, con la mia piccola videocamera nella borsa. Cercavo di respirare l’aria, di capire i movimenti, le intenzioni. Di chi capire chi era chi.

Ero lì quando venne data alle fiamme una camionetta dei Carabinieri alla fine di corso Torino, all’angolo con via Tolemaide. Da questa via sarebbero scese le “Tute bianche”, su corso Torino sarebbero dovute transitare. Probabilmente lì sarebbero avvenuti gli scontri pilotati, perché sul corso c’è più spazio rispetto a tutte le altre vie circostanti. Più spazio non per gli scontri, ma per le videocamere che avrebbero ripreso con più facilità. Oppure proseguire verso piazza Verdi.

Le gabbie di ferro della zona rossa non erano lontane ormai. Corso Torino e piazza Verdi erano un ottimo punto dove intavolare una trattativa e giocarsi una simbolica invasione della zona rossa.

Ma qualcosa nell’aria non tornava. I poliziotti non erano lì per fare le comparse di un teatrino. Lo capii dai loro discorsi, passando a fianco a diversi reparti, con il mio pass bene in vista sul petto, fischiettando.

Lo capii dalla troppa gente esagitata che mai avevo visto nei giorni precedenti. Lo capii dall’utilizzo di alcune tecniche di guerriglia che in verità mai avevo visto impiegate in quegli anni: macchine incendiate, spranghe per infrangere le vetrine dei negozi e i bancomat, violenza non solo contro i simboli del potere, ma contro tutto ciò che a loro gradiva.

Non che mi spaventassi. Qualche anno prima sulle montagne del Kosovo ero stato in mezzo alla guerra vera, volontario in un corpo civile di interposizione nonviolenta. Avevo visto morti, spari, bombe.

Ma mi chiedevo come sarebbe andata a finire. 

Non era la violenza in sé che mi spaventava. Era vedere la totale impreparazione militare dei manifestanti. In Kosovo da una parte stava l’esercito regolare, ma dall’altra guerriglieri armati di tutto punto.

Qui c’erano reparti in assetto anti-sommossa, armati come in guerra da una parte. Dall’altra studenti, lavoratori, famiglie. Del tutto impreparati allo scontro. Anzi, molti di loro del tutto disinteressati allo scontro.

Tranne le “Tute bianche”. Queste avevano bisogno dello scontro. Lo avevano proclamato. Dovevano giocare il ruolo dei bambini discoli.

Ma qualcuno li esautorò, li sopravanzò, costringendo a portare la soglia dello scontro là dove la piazza non avrebbe retto.

In poche parole hanno fatto da esca. 

 

I DISOBBEDIENTI

 

Quando la carica di via Tolemaide ancora non era partita, corso Torino e le sue strade laterali erano già un campo di battaglia. Dispersi di altri tafferugli e cariche secondarie si erano riversati per cercare un po’ di respiro. I primi gas lacrimogeni furono lanciati nelle piccole vie laterali, lì dentro non si poteva respirare. Anche i poliziotti. Non solo non si respirava più, ma era persino difficile vederci ormai. Eppure di gas lacrimogeni ne avevo respirati nei due anni precedenti. Questi erano diversi, più fetenti, più caustici, più tossici. 

Provai ad infilare qualche vicoletto, sapendo il corteo su via Tolemaide ancora lontano. Era già qualcosa di surreale. I primi poliziotti ci erano andati giù troppo pesante. Non con le botte, fino a questo momento: con i gas lacrimogeni. Erano nervosi, gli era scappata la mano. Ognuno, poliziotto o manifestante, scappava in ogni direzione. Giravi un angolo e dalla nebbia poteva emergere un poliziotto in fuga da un gruppo di manifestanti. Ne giravi un altro e incontravi un gruppo di poliziotti che infierivano su un manifestante rimasto indietro. 

E tutto doveva ancora cominciare.

Perché tutto cominciò alle 14.53 di venerdì 20 luglio 2001, quel giorno maledetto.

La dinamica è stata ricostruita ed è risaputa ormai.

"Nooo!... Hanno caricato le tute bianche, porco giuda! Loro dovevano andare in piazza Giusti, non verso Tolemaide... Hanno caricato le tute bianche che dovevano arrivare a piazza Verdi”. Così afferma concitato un ufficiale in una comunicazione di servizio registrata in quei minuti.

Che era successo nel ormai?

Alle 14,30 la centrale operativa della Questura aveva richiesto un intervento alla Compagnia Alfa del Ccir (Contingente di contenimento e intervento risolutivo) del Terzo battaglione Lombardia dei carabinieri: “Per cortesia devi andare veloce però in piazza Giusti dove c’è un gruppo di un migliaio di anarchici che stanno sfasciando tutto. Ci puoi arrivare andando dritto per corso... dove ti trovi tu adesso, finché non arrivi all’incrocio con corso Torino, gira a sinistra e vai dritto. Però devi fare subito perché sta scendendo da corso Gastaldi un altro corteo”.

Una volta all’incrocio tra corso Torino e via Tolemaide (che più avanti, appunto, cambia nome in corso Gastaldi) il reparto si perde, va in confusione, scorda l’obiettivo per cui era stato richiesto l’intervento e carica le “Tute bianche”, altrimenti dette, non senza un senso di cripto-ironia, i “Disobbedienti”.

 

LA VITA REALE

 

Da un punto di vista militare e della gestione della piazza la storia nasce e finisce qui. Un reparto dei carabinieri da poco convertito, zeppo di ex-militari della guerra in Somalia, che dopo essersi persi (d’altronde quelli erano abituati agli spazi aperti del deserto somalo, non alle stradine di città), vengono sguinzagliati contro il corteo sbagliato e si mettono a fare quello che solo sapevano fare: massacrare la gente.

E le “Tute bianche”, che per l’occasione si erano fabbricate pittoresche protezioni in plexiglas, ottime per le foto di scena, vennero spazzate via come in un macabro fumetto. Il muro della ferrovia sulla destra per chi scendeva insieme al corteo ridusse le vie di fuga. 

Da quel minuto, 14,53, fino al colpo sparato che uccise Carlo Giuliani in piazza Alimonda, poco distante, alle 17,27 minuti, s’è manifestato il crollo di una generazione.

2h35’ di tutti contro tutti, di follia ignorante, di cieco nonsense, di sangue, lacrime, botte, rabbia, frustrazione, violenza gratuita.

La strategia delle “Tute bianche” era miseramente fallita, perché pur presentandosi come una strategia militare era piuttosto un equilibrio precario sopra la follia. La centrale operativa della Questura c’ha messo del suo, molto del suo. Ma è stupido lamentarsi di essersi bruciati quando si è voluto giocare con il fuoco. Quello era l’orizzonte di una generazione immatura e bambina, quello del gioco, della finzione, dei privilegi acquisiti, anche in ambito antagonista.

A quei capi e capoccia è stato consentito di difendersi dietro la cosiddetta “reazione spropositata delle forze dell’ordine”. Pensavano di recarsi su un set cinematografico, hanno trovato la vita reale. Uno di noi ha trovato la morte.

 

L’ORIZZONTE DEL GIOCO

Eppure non è tutto, se penso a quelle ore. Mi sentivo come schiacciato tra incudine e martello. E insieme centrifugato. Da una parte la violenza delle forze dell’ordine come mai avevo sperimentato in piazza nel mio Paese. Dall’altra parte il ricatto. Il ricatto di chi sfasciava tutto. E che non erano persone che io conoscevo. Molti erano stranieri. Molti erano persone non identificabili. Molte non erano manifestanti. Nessuno di loro era lì con le mie stesse intenzioni. 

Ma quanti di noi in piazza hanno contestato questi teppisti tanto quanto le forze dell’ordine?

Pochi. Capire in quei minuti cosa stesse succedendo non era facile, posto che nei 20 anni successivi la maggioranza ancora non l’ha capito.

I Black Bloc, l’incubo e la redenzione di una generazione sconfitta e confusa.

Erano dei nostri, si diceva. Solo un po’ più esagitati, ma in nord Europa si usa così. “Hey, hey, what is this guy fucking saying?”. Questa è la risposta che si beccò un semplice manifestante davanti ai miei occhi mentre cercava di arrestare l’azione di uno di loro, giovanissimo, che brandiva il collo di una bottiglia spezzata verso i poliziotti pronti alla carica.

Certo, c’erano in molti casi anche barriere linguistiche. Certo c’erano in molti casi anche barriere culturali. Tutto questo era la dimostrazione che se qualcuno aveva premeditato tutto questo tra i manifestanti, senz’altro la maggioranza di loro non ne era stata preventivamente messa al corrente e quindi mandata allo sbaraglio con cinico calcolo.

E qui tornava il ricatto, come una scarica elettrica di un immaginario filo che delimitava uno spazio di ragionamento da non valicare.

Sì, ma io cosa avevo da guadagnare dall’azione di questi teppisti in tuta nera con caschi e spranghe? Precisamente la mia lotta che beneficio ne traeva?

Non era un suicidio strategico oltre che politico giustificare questo blocco?

Qualcuno ci ha provato con la storia degli infiltrati. Sì, ci sono filmati eloquenti in cui alcuni di loro interloquiscono con i poliziotti impartendo loro ordini.

Gli infiltrati c’erano e come non potevano esserci!

La dottrina Cossiga pure la conosciamo, ce la confessò lui stesso anni dopo quando ormai decrepito non aveva nemmeno più il senso della decenza, in un’intervista a La Nazione del 23 ottobre 2008: “Ritirare le forze di Polizia dalle strade e dalle Università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di Polizia e Carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano”.

Ma non c’erano solo infiltrati italiani, l’orizzonte del gioco era più ampio.

 

I VERI INFILTRATI

I veri infiltrati non erano i poliziotti italiani travestiti da facinorosi che provavano a fomentare e depistare le proteste. I veri infiltrati stavano in posizioni molto più di rilievo. Nelle settimane successive, nei mesi successivi, la parola d’ordine era “mantenere il dialogo” con i Black Bloc. Lo sostenevano alcuni pensatori del movimento, come il collettivo Luther Blisset. 

Mantenere il dialogo. Che significa che la posizione di forza l’hanno loro e noi siamo già divenuti subalterni, solo perché hanno spaccato qualche vetrina.

I veri sabotatori delle proteste sono stati questi pensatori nascosti nell’anonimato. I veri nemici erano loro. 

La loro funzione era quella di mantenere viva il più a lungo possibile la finzione che dietro a quelle sigle un po’ violente ci fossero solo strategie diverse ma comuni obiettivi.

In quegli anni quegli ambienti del nord Europa si sono trasformati scomponendosi e ricomponendosi in una perfetta strategia di guerriglia semantica.

Divennero poi No Border e Antifa. Con questi nomi si ripresentarono in Italia negli anni successivi e ancora il fumo sollevato da diversi pensatori impediva di vedere queste dinamiche.

Cosa univa tutte queste esperienze? Piattaforme costruite come bambole matrioske, all’origine delle quali stava il capitale, il Potere che pensavamo di combattere.

 

EGEMONIZZARE LE MENTI

 

Molti anni dopo, nel 2015, a Berlino, ebbi una conversazione con un attivista siriano, a casa sua, sottovoce. Mi disse queste parole: “Da una anno ci preparavamo agli eventi. Si tenevano degli incontri clandestini. Ci hanno insegnato ad usare le videocamere e a caricare in rete le immagini. La violenza del regime sarebbe dovuta uscire allo scoperto, nelle piazze e nelle vie. Lì noi l’avremmo immortalata e trasmessa in breve tempo in tutto il mondo. Questo avrebbe consentito di abbattere il regime”.

Ascoltavo le sue parole e provavo pena per quel che ero stato: un giovane ragazzo manipolato, plagiato, come molti, come quasi tutti, come quello stesso ragazzo siriano era stato.

Le dinamiche erano le stesse. Fomentare gli scontri per farne teatrino. Poi qualcuno si infiltra, la questione sfugge di mano, l’affare s’ingrossa e passa a qualcuno di più potente.

Il video attivismo e la lotta per i diritti umani sono la stessa trappola concettuale. Creare il pretesto per un’azione mirata e strabica che poi tu non determini, tanto meno controlli. Azione di altri che con la menzogna cavalcano il tuo malcontento per poi superare i tuoi piani e trascinarti laddove non volevi andare.

Il G8 di Genova è stata un’altra esperienza sulla strada delle rivoluzioni colorate.

Indymedia era la trappola per topi in cui siamo tutti caduti.

Eppure io ero a Belgrado nel 1999. Avevo conosciuto i ragazzi di Optor. Li avevo visti trasformarsi in pochi mesi da movimento studentesco a movimento di popolo, grazie all’assistenza mediatica e finanziaria di piattaforme straniere.

Ma avevo 26 anni. Il mondo non poteva fare così schifo. Almeno non nel mio Paese.

Eppure guardatele quelle piattaforme. Ora non finanziano più gente incappucciata. Perlomeno non in Europa. Non ce n’è più bisogno. Adesso quei soldi finanziano organizzazioni, movimenti, associazioni, partiti, artisti, giornalisti, scrittori, ricercatori. Adesso quei soldi finanziano le ONG, il movimento No Border e quello Antifa, finanziano il movimento Black Lives Matter tanto quanto il movimento LGBT.

In 20 anni hanno egemonizzato il pensiero. Hanno calato un cappello tanto stretto su quello che era il nostro dibattito in quegli anni che ci è calato sugli occhi e da lì in poi siamo stati incapaci di vedere e soprattutto di capire dove stessimo andando.

 

 

PIAZZA ALIMONDA

 

Il proiettile che uccise Carlo Giuliani venne sparato alle 17,27 di quel maledetto 20 luglio 2001. Quel proiettile uccise una generazione. Ma i proiettili sparati furono due. Due sono gli spari che sentii. Mi trovavo in una stradina laterale a piazza Alimonda. Chi li ha sparati, da dove e verso dove, in tutta sincerità ancora non mi è chiaro. 

Gli spari sono stati due. Le ipotesi molte di più.

Ma non mi colsero di sorpresa quei due spari. Da diversi minuti ormai vagavo con la certezza che qualcuno avrebbe sparato. Troppa la confusione, troppa la tensione, troppa la posta in gioco, troppa la paura da entrambe le parti. Avrebbe fatto il gioco di molti, forse di tutti. Un pazzo, un infiltrato, un invasato, un poliziotto sotto pressione per legittima difesa. Chiunque avrebbe potuto sparare. E infine lo fece. O lo fecero.

Il mio cervello si spense. Recuperai la mia motocicletta parcheggiata ben lontana dal luogo degli scontri, attraversando vie con auto in fiamme e vetri rotti a terra. Lasciandomi tutto alle spalle salii al Media Center. La tristezza era ovunque. Perché era morto un ragazzo come noi. Perché qualcuno stava giocando sulle nostre teste. E ancora non capivamo chi.

 

 

BANDIERINE TRISTI

 

Ci ritrovammo il giorno dopo a sfilare, sabato 21 luglio, per quello che doveva essere l’ultimo dei cortei, messo in discussione fino all’ultimo, infine partito con l’intenzione di mostrare al mondo intero che i violenti non eravamo stati noi. Un tentativo un po’ ridicolo, benché legittimo per la quasi totalità dei manifestanti. 

Fu in tutto e per tutto un corteo funebre. Non si seppelliva idealmente soltanto Carlo in quel corteo. Si seppelliva ogni speranza di libertà.

Ma i nostri carcerieri non erano quelli che noi credevamo.

Rimanemmo lì alla fine, con le nostre bandierine tristi in mano, sia quelle vere che quelle metaforiche. I nostri concetti chiari, i nostri slogan: “Un altro mondo è possibile”, “Migranti il sesto continente”, “Abbattiamo i confini”, “Nessuno è clandestino”.

Ora questi ricordi sono per me ancora più tristi. Quelle bandiere che reggevamo in maniera così triste durante quel corteo, come se fossero le bandierine del nostro club di calcio sonoramente sconfitto dagli avversari sventolate a mezz’aria a fine partita, quegli slogan che scandivamo in maniera non meno triste, erano già le gabbie di domani, erano già gli slogan fallaci che ci avrebbero ottenebrato la mente negli anni a venire.

 

 

IL BLITZ ALLA SCUOLA DIAZ

 

Il racconto di quei giorni non può finire qui. Perché quel giorno altrettanto triste, il 21 luglio, non aveva ancora detto tutto. Anzi, ci aspettava una sorpresa ancora peggiore.

Rientrammo tutti al “Media center” nella scuola “Pascoli”. La gente smobilitava: i computer, le stampanti, le videocamere, i telefoni, tutto veniva riposto e portato via.

Per gli Italiani c’erano i treni speciali che avrebbero ricondotto la gente a casa. “Come, così presto?”. C’era forse bisogno di stare insieme una sera in più per cercare di capire insieme come era potuto andare tutto così male.

Ma c’erano i treni speciali, meglio partire. Ci sarebbe stato tempo nelle settimane successive per rivedersi e parlare. 

Io però dormivo in camper ed ero venuto con la motocicletta da Milano. Si decise di rimanere una notte in più e ripartire la mattina seguente dopo qualche ora di sonno.

Mi misi a telefonare dall’aula dei Milanesi che ormai si era svuotata. Passai al telefono forse ore, perché volevo essere col pensiero quanto più lontano possibile da quel posto. Stavo lì, da solo in quell’aula, mentre l’intero edificio scolastico nel frattempo si era svuotato.

Quando sentii i poliziotti gridare dal cortile mi accorsi di aver perso il senso del tempo. Ormai si era fatto buio da un pezzo, fuori dalle finestre. Era da poco passata la mezzanotte. Lasciai per un attimo la persona con cui stavo parlando al telefono e mi affacciai alla finestra che dava sul lato laterale della scuola. Riuscivo da lì però a vedere il cancello d’ingresso. Vidi alcune decine di poliziotti in assetto anti-sommossa con caschi, scudi e manganelli. Tornai alla cornetta del telefono e rimandai la telefonata a momenti migliori.

Mi paralizzai nel mezzo dell’aula. Cercai di fare mente locale. Da un bel pezzo non sentivo altri rumori nell’edificio. Ero l’ultimo ad essere rimasto all’interno? Rifeci mente locale. Le ipotesi che mi vennero in mente erano solo due: restare nell’aula e aspettare che i poliziotti salissero per poi presentarmi a mani alzate e provare a dimostrare di essere innocente oppure buttarmi dalla finestra del secondo piano? Ci pensai giusto un paio di secondi e già stavo con il ginocchio sul davanzale pronto a gettarmi dal secondo piano. Avevo intravisto una bella aiuola nel buio dove mi sarei nascosto una volta atterrato, chissà in che stato, sul prato del cortile della scuola. 

Finché un grido arrivò dal corridoio della scuola. Una ragazza lo tirò sfrecciando di corsa: “Tutti nell’aula di radio Gap!”. Mi chiesi: “Tutti chi? Quindi non sono rimasto da solo”. 

Rimandai la scelta di buttarmi dalla finestra e seguii la ragazza in corridoio. Montammo in fretta e furia una barricata sulla scalinata con cattedre, banchi e armadi della scuola. E poi corremmo insieme ad altri fino all’aula dove radio Gap, la radio del movimento, gli unici ad essere rimasti a Genova ed ancora operativi, stava ancora trasmettendo in diretta.

Dopo pochi minuti i poliziotti fecero irruzione nell’aula. Esiste un famoso audio della diretta della radio di quei minuti: 

<<E' una scena cilena, stanno sfondando la nostra porta, stanno sfondando la nostra porta... non so se lo sentite...

- Stanno cercando di sfondare la nostra porta al secondo piano… Bene, mani alzate, resistenza passiva, ragazzi: uno sgombero in diretta. Radio Gap sta per essere sgomberata: manteniamo la calma…

- Seduti… ragazzi, calma, seduti e mani alzate… Continueremo a denunciare quello che sta facendo questo Stato criminale e questa polizia fascista…

- Eccoli, sono entrati… sono entrati i poliziotti in radio…

- … che è entrata nella sede di una radio, manganelli in mano e casco in testa… in questo momento fanno segno di star giù…

  • … con manganello in mano e casco anti-sommossa… la repressione in diretta su Radio Gap>>.

Io ero all’interno dell’aula in quei momenti, insieme a circa una ventina di altri ragazzi e ad alcuni redattori della radio.

I poliziotti rimasero sorpresi, sbalorditi al constatare che la loro azione stava venendo sputtanata in diretta in tempo reale. Rimasero con i manganelli a mezz’aria: “Ah, vabbeh, noi volevamo solo controllare i vostri documenti”, dissero spaventati dall’essere denunciati per un’azione i cui presupposti scricchiolavano così come gli estremi di legalità.

Rimanemmo piantonati per un’ora circa però, senza poter lasciare l’aula. 

Non appena ci fu chiaro che non ci avrebbero torto un capello ormai, ci precipitammo alle finestre dell’aula che fatalmente davano sulla scuola “Diaz”, che stava lì davanti a poche decine di metri.

Lì stava andando in scena la “macelleria messicana”, come passò alla storia. Quindici minuti ininterrotti in cui decine di poliziotti hanno picchiato a sangue, come tutti sanno, un centinaio di manifestanti.

Il blitz era scattato su tutte e due le scuole. La “Pascoli”, la nostra, era ormai vuota, salvo quelli come me, che alla fine si salvarono rifugiandosi nell’aula di radio Gap.

La scuola “Diaz” invece era piena di giovani ragazzi indifesi, soprattutto stranieri, che sarebbero ripartiti l’indomani non potendosi giovare dei treni speciali con cui lo Stato italiano aveva già riportato a casa i manifestanti italiani.

Quei 15 minuti furono un incubo vivo per le nostre orecchie. 

Molti di noi impazzirono, strappandosi i capelli e gettandosi sul pavimento. Qualcuno provò a saltare dalla finestra. L’impotenza ci stava ammazzando, la frustrazione di non poter far nulla, di sentirsi scampati nel mezzo di una macelleria.

Riuscii ad estrarre la videocamera e feci alcune delle poche immagini che ritraggono quei minuti del blitz. Si possono facilmente riconoscere, sono quelle con la mascherina nera in alto e in basso dello schermo. 

Quando dopo un’ora, il tempo che ci volle per evacuare i feriti dalla scuola Diaz, i poliziotti ci lasciarono uscire dall’aula, anche lo sbarramento davanti alla scuola “Diaz” venne rimosso. Fui tra i primissimi ad entrare nella scuola ormai deserta. 

La vidi con i miei occhi e la mia videocamera la “macelleria messicana”: le pozzanghere di sangue a terra, le strisciate di sangue sui muri, le ciocche raggrumate sui termosifoni, gli zaini imbrattati, i sacchi a pelo, i quaderni, i vestiti gettati ovunque. 

Non rimasi impressionato. Ne avevo viste già di peggio. 

Rimasi offeso. 

Tutto questo era successo nel mio Paese.

 

 

CONCETTI TOSSICI

 

Ascoltare oggi i capi di quella stagione affermare, a 20 anni di distanza, che avevamo ragione noi, mi suona come un crudele prolungamento dell’agonia. O come un ostinato voler rimandare, se non altro per una questione di sopravvivenza politica, il giorno in cui il bluff sarà scoperto.

Eppure se provo a ricordare le sensazioni, le prospettive di quei giorni, quando quel movimento si definiva “no global”, non posso che ricordare una sensazione di svolta epocale. 

Avevo la sensazione che tutti coloro che erano in piazza con me avessero chiaro il fatto che perdere quella battaglia, cioè cedere alla globalizzazione, avrebbe significato cedere di fronte a un cambiamento storico epocale, peraltro già in corso, che avrebbe solo accentuato le differenze tra Nord e Sud, dando il via ad un nuovo colonialismo.

La battaglia per la cancellazione del debito ai Paesi africani era già stata persa un decennio prima, a partire dall’uccisione di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, nel 1987. La conseguente introduzione dei visti in Italia, varata con la legge “Martelli” nel dicembre 1989, aveva rappresentato un pesante passo indietro sul cammino per l’uguaglianza mondiale. A Genova, nel 2001, come molti altri giovani, nella mia ingenuità credevo che la posta in gioco fosse quella. Del resto erano fatti avvenuti solo 10 anni prima. C’era, per così dire, la prospettiva che si potesse fare un passo indietro e rimediare a quanto di sbagliato avvenuto nel decennio precedente.

L’altro mondo possibile era quello: tornare indietro a prima del 1987, tornare a quella sacrosanta battaglia. “Nessuno è clandestino” significava questo. Significava tornare a prima della legge “Martelli”. 

Tuttavia mi sembrava ovvio che al contempo andasse ripresa la battaglia per la cancellazione del debito, altrimenti si sarebbero poste solo le basi per movimenti di masse di disperati, scenario che pareva tutto fuorché il nostro obiettivo.

In poche parole “i migranti”, parola che avevamo da poco imparato ad usare, erano una conseguenza del fatto che qualcosa stava andando storto. L’orizzonte del nostro pensiero prevedeva che nessuno sarebbe più stato costretto a migrare.

Quella battaglia però è stata persa. Due mesi più tardi ci fu l’attacco alle Torri gemelle, la conseguente neo-colonizzazione americana del Medio Oriente. Dice anni più tardi ci furono le cosiddette “rivoluzioni arabe” e ora, 20 anni più tardi, quella sinistra si ritrova in mano un’agenda completamente diversa, a volte capovolta. 

Come questo sia avvenuto non smetto di domandarmelo.

Negli anni successivi al G8 di Genova si diffusero altri slogan ancor più perentori sulla questione. Uno tra tutti, in inglese: "No border, no nation, stop deportations!”, “Nessuna frontiera, nessuna nazione, stop alle deportazioni”.

Ho personalmente partecipato ad azioni “no border” in quegli anni, soprattutto tra la Grecia e la Turchia, dove vivevo.

Ero convinto, e lo sono ancora, che la “libertà di movimento” fosse un diritto inalienabile per tutti gli esseri umani da cui non retrocedere.

L’articolo 13 della “Dichiarazione universale dei diritti umani”, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, recita:

“1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.

2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese”.

In quegli anni molti pensatori di quell’area di riferimento, tra cui Sandro Mezzadra in Italia, elaboravano concetti come “il diritto alla fuga”, lavorando a creare una dimensione umana nella figura del migrante: non mero numero, ma persona. Non oggetto, ma soggetto della politica. A parole.

Che ci fosse qualcosa che scricchiolasse in queste teorie si poteva annusare sin dall’inizio. Non mi era mai sfuggito come quella retorica immaginasse quelle persone già fatalmente “migranti”, condannate alla fuga, “vittime” comunque andrà.

Mancava cioè ogni prospettiva di resistenza. Anzi, era stato spostato completamente il mirino di questa. La prospettiva di resistenza si aveva nel proprio diritto di spostarsi, non nel proprio diritto di vivere una vita degna nel proprio Paese. 

In pratica un disperato, dopo aver perso la battaglia di resistenza più cruciale della propria vita, quella di affermare la giustizia sociale nel proprio luogo di origine, ne avrebbe dovuta intraprendere un’altra, più congeniale, più “moderna”, quella per il diritto a muoversi, ad attraversare frontiere, quella ad inserirsi in altri Paesi. Battaglia che, fosse stata vinta la prima, non sarebbe stata probabilmente cruciale nella vita di queste persone.

In altre parole, pensatori devoti agli dei del tramonto, ben equipaggiati e finanziati da società straniere, le stesse che più o meno cripticamente finanziavano Black Bloc ed Indymedia, disseminavano il dibattito di concetti tossici.

Il concetto di Fortezza Europa, per esempio. O quello dell’Esternalizzazione della frontiera, come viene definito. Può pure essere così, ma cosa mi interessa di cosa fa l’Europa sui propri confini se poi non guardo a cosa fa l’Europa fuori dai quei confini?

E’ questo il cuore del problema. Ma fare distrazione di massa è in fondo l’arte di questi depistatori.

Si è innalzato il concetto di accoglienza non solo a soluzione dei problemi del mondo, ma addirittura a motore delle rivoluzioni sociali (che però ancora non si sono viste in vent’anni, al contrario ovunque è cresciuta la precarietà ed è crollato il costo del lavoro).

E tutti questi concetti tossici sono stati seminati nelle zucche di quelli che erano prima “no global”. Questo lavaggio del cervello è stato fatto per interesse, perché c’era lo zio d’America che distribuiva mance e mancette attraverso convegni, borse, premi, viaggi, pubblicazioni, sovvenzionamenti e stratagemmi simili. E questo voleva che si dicesse e pensasse.

 

 

INCONSAPEVOLI SERVITORI DEL CAPITALE

 

Per me che da 3 anni conduco il progetto “Exodus - fuga dalla Libia”, parlare via internet con centinaia di lavoratori e lavoratrici africane bloccate in Libia è stato come squarciare il velo.

E’ stato come affacciarsi nel retropalco dove si muovono i fili di questa tragicommedia. E’ stato come avere sotto gli occhi contemporaneamente la visuale del “di qua” sotto i riflettori del palco e del “di là” dietro le quinte.

Oggi, a 3 anni di distanza e dopo interminabili racconti in diretta dalla Libia, le mie idee sulla questione della libertà di movimento si sono fatte necessariamente più chiare.

In altre parole il concetto racchiuso nella parola “migrante” sottende la possibilità che il singolo individuo possa salvare se stesso all’interno di una dinamica di selezione naturale, perché i “migranti” sono già una piccola minoranza fatta da chi si può permettere il viaggio, mentre chi arriva a destinazione è ancora di più una minoranza della minoranza. 

E’, in poche parole, l’applicazione del darwinismo sociale neo-liberista al concetto di mobilità.

Ecco perché, in una prospettiva socialista, l’espressione “solidarietà con i popoli” è più sincera rispetto all’espressione “solidarietà con i migranti”, perché in questo secondo caso si dà per assunto (anche se non dovrebbe essere così) che qualcuno ce la farà, qualcun altro non ce la farà, sulla base dei capricci della sorte, della propria astuzia nonché della propria resistenza fisica e psicologica. Si accetta cioè che una situazione di indigenza iniziale sia motivo di una sfida con la sorte e non di una battaglia politica sul posto.

Anziché di diritto alla resistenza, si introduce il diritto alla fuga. Sicché la partita è persa ancora prima di cominciarla e si salvi chi può.

Al contrario sono convinto che l’opposizione ad accordi internazionali sbilanciati, la promozione di accordi commerciali di equo scambio, l’opposizione ad interventi militari stranieri mossi da interessi imperialistici, l’opposizione alla vendita sconsiderata di armi siano passi preliminari irrinunciabili prima ancora di imbastire ogni discorso.

E questa è una battaglia che non va data per persa, perlomeno io non lo voglio fare.

Quella è la linea di confine tra l’umanità e la barbarie. 

Affidare poveri disgraziati ai capricci della sorte in una dimensione di salvezza individuale quale la migrazione è, perdendo di vista la salvezza collettiva negata loro nel loro Paese, è già parte della barbarie.

Ma non è solo sul piano dell’analisi teorica che la dottrina del diritto alla fuga si arena in un mare di contraddizioni. E’ sul lato pratico che il sostegno alla libertà di movimento, ora, a queste condizioni, diventa de facto una crudele trappola.

Mentre in Europa le opposte tifoserie di chi parla di “accoglienza” e chi parla di “invasione” entrambe si attestano sul consolatorio (per ragioni opposte) assioma dell’ineluttabilità della migrazione, in Africa il dibattito va in tutt’altra direzione.

Gli schiavi in Libia chiedono di tornare a casa. Lo chiedono attraverso centinaia di messaggi vocali che ho ricevuto da loro, rappresentati nel videoclip di “Give me the Oil and take the Slaves” (https://www.youtube.com/watch?v=PU2y4r9MfjI&t=117s).

Ma la definizione “migrante” impedisce di capire, perché il concetto non contempla la possibilità che qualcuno  di loro lungo la strada si stanchi di essere schiavo e voglia tornare a casa.

E’ un dispositivo concettuale spietato ed eurocentrico. Questa volta non portiamo la civiltà e non esportiamo la democrazia. Questa volta salviamo vite in mare. Così sembra. Ma ogni anno solo 1/70 degli schiavi in Libia raggiunge l’Europa e 1/70 viene intercettato dalla Guardia Costiera Libica e riportato a terra. Gli altri restano indietro e nemmeno raggiungo il mare perché l’Europa per loro non sarà una destinazione, ma è stata un’esca. Un raggiro necessario per metterli in cammino e consegnarli nelle mani delle milizie di Tripoli che ne dispongono impunemente in regime di schiavitù con il silenzio dell’Europa che in cambio beneficia del petrolio saccheggiato al popolo libico da quelle stesse milizie.

E quindi, tecnicamente, la narrazione migratoria è fumo negli occhi per non vedere il saccheggio delle risorse.

Mentre in Europa ci dividiamo tra coloro che farneticano di libertà di movimento e credono che gli immigrati siano come pere mature che ad un certo punto cadono dall'albero e coloro che farneticano di invasione e di Africa come posto da cui fuggire, in Africa c'è chi lotta ogni giorno per il diritto a vivere una vita degna nel proprio Paese.

La libertà di movimento, pertanto, è una bella cosa. Quando c’è.

Invocarla, oggi, in Europa, senza preoccuparsi di cosa la migrazione sia, oggi, in Africa, è follia. Se la migrazione in Africa oggi è diventata la forma di autofinanziamento di mafie e milizie locali, a piede libero grazie alla distruzione dello stato di diritto colpito al fine di favorire il nostro saccheggio delle loro risorse, allora chi la invoca, che lo faccia in buona fede o meno, oggi è un complice di milizie, mafiosi, trafficanti e un agente dei propri governi.

 

 

UNA GENERAZIONE SCONFITTA E MAI CRESCIUTA

 

Oggi, 20 anni dopo, ho tolto troppe maschere in questo massacro. E non ho problema a dire che quel mondo che ritenevamo possibile era un incubo che per fortuna non si è ancora avverato per intero.

Quando vedo i centri sociali oggi mobilitarsi per favorire il commercio di un vaccino sperimentale prodotto dalle multinazionali (come si chiamavano allora), penso che la cannibalizzazione di quel movimento sia ormai completata.

Se quel mondo possibile era il mondo delle ONG che implementano agende di governi finanziate dalle stesse lobby che sponsorizzano i deputati di quei governi (la Redistribuzione dei “migranti” è una politica dell’UE, avallata da tutte le ONG, mentre gli schiavi in Libia chiedono Evacuazione, cioè tutt’altro), con un controllo militare dell’informazione che fabbrica narrazioni fiabesche e ignora la realtà dei fatti, allora quel mondo che abbiamo sognato era un incubo.

Se quel mondo possibile era fatto di fondi stranieri che finanziavano le piattaforme su cui pubblicavamo la nostra contro-informazione, ma che al tempo stesso cripto-finanziavano anche le frange estreme che relegavano la nostra lotta in secondo piano e al tempo stesso animavano la finanza internazionale che depredava il mondo, allora quel mondo che abbiamo sognato era un incubo.

Se quel mondo possibile aveva previsto per noi solo il ruolo dei sognatori, degli agitatori, illusi  e inconcludenti, maestri di sicumera in mezzo a un mondo che contribuiamo quotidianamente a sfasciare, beatamente indaffarati in altri pensieri sul sesso degli angeli, allora quel mondo che abbiamo sognato era un incubo.

Se quel mondo possibile aveva previsto che, invece di lottare contro le strutture del potere, le avremmo assecondate con la “cooperazione allo sviluppo”, riuscendo a campare con i soldi degli sfruttatori facendo di finta di essere con gli sfruttati, allora quel mondo che abbiamo sognato era un incubo.

In altre parole quei concetti che dovevano essere dei vaccini contro l’ingiustizia, sono diventati i recinti ben protetti del nostro essere privilegiati.

La verità è che quel movimento che scese in strada a Genova in questi giorni 20 anni fa è sempre rimasto immaturo, non è mai diventato adulto. Invece di ribellarsi all’autorità del padre, ha finito per conformarsi. Ora sono tutti globalisti. Hanno fatto una carriera usufruendo dei canali aperti a suon di finanziamenti della Open Society, hanno costruito miti vuoti, sono persone di rispetto ora, sono pifferai magici che incantano serpenti. 

E’ una generazione che non ha mai fatto i conti con la vita reale, non è mai cresciuta. Si è raccontata sempre un sacco di favole e poi, invece di ammettere la sconfitta, ha preferito smettere di lottare e accomodarsi sullo scranno profumato del moralismo. Ha preferito cambiare il nome alle cose piuttosto che cambiare le cose.

Michelangelo Severgnini

Michelangelo Severgnini

Regista indipendente, esperto di Medioriente e Nord Africa, musicista. Ha vissuto per un decennio a Istanbul. Ora dalle sponde siciliane anima il progetto "Exodus" in contatto con centinaia di persone in Libia. Di prossima uscita il film "L'Urlo"

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