Il ruolo della guerra informativa e psicologica nella caduta della Siria per mano dei terroristi

I “nuovi tipi di guerra” che alla fine dello scorso millennio poteva già essere intravista è oramai la costante. La compenetrazione del piano militare a quello non-militare delle operazioni belliche è pressoché totale, e si può dire ormai che lo scontro diretto tra eserciti rappresenti ormai una parte minoritaria, per quanto sicuramente fondamentale, dell’esperienza della guerra.

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Il ruolo della guerra informativa e psicologica nella caduta della Siria per mano dei terroristi



La rapida avanzata delle forze delle milizie terroristiche nell’ultima settimana ha cambiato radicalmente lo scenario siriano, che sembrava ormai reso sostanzialmente stabile grazie al dialogo di Astana. Il sostegno turco, ucraino e sionista, oltre che statunitense, ha reso possibile un accumulo di forze e mezzi militari capaci di costringere le truppe dell’Esercito Arabo Siriano a un progressivo ritiro, cedendo nelle mani dei salafiti due città d’importanza vitale come Aleppo e Hama. Ciò è stato causato non solo dalla disorganizzazione dell’esercito siriano e dalla sottovalutazione, soprattutto russa, della minaccia che ancora rappresentava l’enclave terrorista di Idlib, ma anche dall’uso da parte delle milizie terroriste di strumenti di guerra informativa e psicologica.

Dai primi momenti dell’attacco contro le postazioni siriane a ovest di Aleppo la rete è stata invasa da video e messaggi che annunciavano l’occupazione da parte dei salafiti di villaggi e quartieri della città. Informazione false, ma che, unite all’attacco di disturbo operato contro le comunicazioni siriane, ha fatto sì che si diffondesse il panico tra le truppe di Damasco. Intere unità hanno così abbandonato le loro postazioni, perché convinte di stare venendo circondate. Ma in realtà i terroristi dovevano ancora ingaggiare il combattimento, e sono così potuti penetrare in abitati semi-deserti. Il nuovo materiale propagandistico prodotto con queste occupazioni ha permesso di indebolire ancor di più il morale dei difensori, portando a un effetto domino dagli esiti distruttivi. Lo riporta, tra gli altri, il giornalista Ahmad Serhan: “La maggior parte delle aree siriane che sono cadute negli ultimi giorni sono cadute inizialmente grazie ai media, ancor prima che i terroristi le raggiungessero, dove si sono diffuse voci su di esse, così la gente si è ritirata da queste aree e i terroristi le hanno raggiunte senza alcuna difficoltà. Si sono preparati e addestrati per anni, soprattutto per quanto riguarda i media, e purtroppo sono riusciti a trionfare in alcuni luoghi senza alcun confronto mediatico degno di nota. I media non sono solo la televisione[1].

Per quanto le operazioni di guerra psicologica abbiano sempre rivestito un ruolo chiave nell’epoca contemporanea, si pensi agli attacchi di “vampiri” messi in campo dalla CIA nelle Filippine per terrorizzare la popolazione in chiave anti-comunista o all’operazione dei “manifesti cinesi” condotta in Italia grazie alla collaborazione dell’Ufficio Affari Riservati con il movimento neofascista Avanguardia Nazionale, ma con la diffusione su scala globale di internet e di strumenti digitali a buon mercato, esse sono diventati non solo più frequenti ed efficaci, ma anche straordinariamente semplici da realizzare. Le operazioni di guerra psicologica e informativa sono diventate da un lato più “semplici” nella loro esecuzione, dall’altro più sofisticate, divenendo sempre più integrate con gli altri strumenti bellici convenzionali e non convenzionali. Quello che vediamo oggi è l’ultimo segmento di un percorso pluri-decennale. Già nel 1999 i colonnelli dell’Esercito Popolare di Liberazione Wang XIangsui e Qiao Liang nel loro celebre testo “Unrestricted Warfare” individuavano tra i principi della “guerra senza limiti” contemporanea l’omnidirezionalità, ossia l’unione di una visione a tutto tondo e del ricorso a ogni singolo mezzo, militare e non militare, per condurre le operazioni belliche: “In termini di guerra oltre i limiti, non c'è più alcuna distinzione tra ciò che è o non è un campo di battaglia. Gli spazi della natura, come la terra, i mari, l'aria e lo spazio esterno, sono campi di battaglia, ma lo sono anche gli spazi sociali, come l'esercito, la politica, l'economia, la cultura e la psiche. E lo spazio tecnologico che collega questi due grandi spazi è ancora di più il campo di battaglia su cui tutti gli antagonisti non risparmiano sforzi per contendersi.  La guerra può essere militare, o quasi militare, o non militare. Può essere violenta o non violenta. Può essere un confronto tra soldati professionisti o tra forze emergenti composte principalmente da persone comuni o da esperti. Queste caratteristiche della guerra oltre i limiti sono lo spartiacque tra essa e la guerra tradizionale, nonché la linea di partenza per nuovi tipi di guerra[2].

Questi “nuovi tipi di guerra” che alla fine dello scorso millennio poteva già essere intravista è oramai la costante. La compenetrazione del piano militare a quello non-militare delle operazioni belliche è pressoché totale, e si può dire ormai che lo scontro diretto tra eserciti rappresenti ormai una parte minoritaria, per quanto sicuramente fondamentale, dell’esperienza della guerra. L’organizzazione di un’operazione offensiva non comporta più unicamente preparativi legati alla logistica, alla cooperazione tra diverse armi e alla comunicazione tra le varie unità e tra loro e gli ufficiali, ma anche quelli legati alla produzione di un grande numero di contenuti digitali capaci di spostare l’ago della bilancia a livello informativo e psicologico. Il caso siriano è emblematico perché mostra gli effetti sul campo portati da un panico diffuso a mezzo digitale, ma si potrebbe citare anche l’esperienza georgiana o, più in generale, quella di ogni tentativo di "rivoluzione colorata”, dove parte centrale occupano i contenuti mediatici capaci di dare forza a una narrazione volta a presentare tentativi di sovversione violenta dell’ordine costituzionale di un paese come mobilitazioni spontanee, “democratiche”, animate da “giovani in cerca dell’Europa. In questo modo non solo una minoranza rumorosa può magicamente divenire sugli schermi e sui giornali la maggioranza assoluta di un paese, ma un governo può vedere il riconoscimento internazionale della sua legittimità sgretolarsi nottetempo.

 

L’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina è stata ancora una volta un vero e proprio spartiacque. Dai primi momenti dell’intervento russo si mise in moto una macchina di guerra psicologica mastodontica, capace di creare dal nulla materiale propagandistico indirizzato sia alla demoralizzazione del nemico che al sostegno al fronte interno. Dalle vecchiette capaci di abbattere droni con barattoli di conserve al “fantasma di Kiev”, numerosi “miti” sono stati creati nottetempo per dare vita all’immagine di un paese unito nella coraggiosa e decisa lotta di resistenza contro l’invasore russo. Tali rappresentazioni fantastiche erano pensate principalmente per il consumo interno all’Occidente, per alimentare la narrazione di un’Ucraina “eroica” pronta a tutto, a patto che i paesi euro-atlantici avessero saputo fare la loro parte inviando armamenti sempre più sofisticati e letali. E, almeno in un primo periodo e soprattutto nei paesi nordici, questa narrazione ha indiscutibilmente funzionato.

La grande disponibilità di attrezzature digitali a buon mercato, dagli smartphone alle GoPro, ha permesso una produzione sempre più diffusa di materiali di propaganda di qualità e immediatamente condivisibili sulla rete. Ne danno un grande esempio le forze armate ucraine, capaci di diffondere una grande quantità di video di assalti di successo e operazioni di infiltrazione che, per quanto in genere risoltesi nel quasi annientamento del gruppo stesso, compensano lo scarso impatto sul combattimento con un grande impatto mediatico e informativo. I raid negli oblast di Brjansk e Kursk e le incursioni sulla costa della Crimea ben rappresentano ciò. Si tratta di operazioni psicologiche condotte da personale combattete, il cui obiettivo non era quello di causare danni materiali alle strutture militari della Federazione Russa, ma di arrecare un danno d’immagine, seminare paura e sconforto, e fornire all’Occidente il materiale propagandistico necessario per giustificare il continuo afflusso di armi provandone sul campo l’efficacia. Un altro esempio attuale è quello offerto dalle brigate al-Qassam, ala militare del Movimento Islamico di Resistenza palestinese. A partire dagli attacchi del 7 ottobre 2023, le operazioni dei combattenti palestinesi sono state riprese e diffuse quasi giornalmente. Il celebre “triangolo rosso” che accompagna i video degli attacchi contro le truppe sioniste è diventato un simbolo internazionale, e queste riprese hanno contribuito in maniera decisiva, soprattutto nel mondo mussulmano, a combattere la narrazione di Tel Aviv su una resistenza palestine sostanzialmente “distrutta” da bombardamenti e operazioni di terra, mostrando come invece le pattuglie israeliane continuino a cadere in imboscate mortali in zone che sembravano “pacificate”, portando alla morte anche di ufficiali di alto rango. Tale capacità mediatica non è scollegata da quella mostrata da Hezbollah nello stesso periodo: le decine di carri merkava distrutti sono stati quasi completamente ripresi in video diffusi giornalmente dai canali mediatici dell’organizzazione libanese, che è riuscita anche a organizzare la ripresa tramite droni di installazioni militari chiave delle forze sioniste. Tali riprese non solo hanno provato le capacità di raccolta dati di Hezbollah, ma anche mostrato i vulnus nella difesa israeliana, che la narrazione di Tel Aviv ha sempre presentato come tra le migliori al mondo.

Ma sarebbe oggi più che mai sbagliato limitare l’impatto delle operazioni psicologiche al campo di battaglia. Esse vedono un utilizzo ad ampio spettro all’interno dei contesti politici, sociali, culturali e ideologici non solo tramite la propaganda diretta, ma anche tramite operazioni di infiltrazione, inquinamento del discorso, provocazione e depistaggio. Una fazione radicale del campo avverso può essere sostenuta -o costruita ex novo- per destabilizzare il nemico, promuovere conflitti interni e allontanarlo dalla sensibilità della maggioranza della popolazione; attraverso agenti infiltrati o condizionati si può portare il dibattito su livelli giudicati innocui o funzionali alle proprie esigenze strategiche, spingendo al contempo il nemico a sprecare risorse per condurre una lotta inutile se non controproducente; attraverso azioni particolarmente visibili si può provocare una reazione desiderata per costringere il nemico ad assumere posizioni difficilmente difendibili, a rivelare le sue vere idee, a distogliere risorse da altri fronti per “salvare la faccia”, a dover fare i conti con contraddizioni interne; attraverso la diffusione di informazioni false o parziali si può far passare sottotraccia qualcos’altro, o condizionare la reazione del nemico o del pubblico perché metta al centro della propria attenzione dei fattori voluti. Tutto ciò vale per il campo di battaglia come per lo scontro politico, la discussione culturale e la guerra informativa.

Nel campo delle operazioni psicologiche le forze dell’imperialismo si mostrano incredibilmente più efficaci rispetto a quelle loro opposte. Stati Uniti, Inghilterra e Israele sono riusciti a più riprese a subordinare alle loro esigenze strategiche movimenti disparati e tra di loro apertamente conflittuali. I nazisti dell’Europa dell’est, i salafiti del mondo mussulmano, i narcos, gli evangelici e  i militari golpisti dell’America Latina, radicali di destra e attivisti LGBT dei paesi occidentali si trovano sotto la medesima direzione, per quanto sostanzialmente a loro insaputa. Ciò testimonia una grande capacità da parte da parte dei servizi di intelligence euro-atlantici non solo di gestire concretamente operazioni di supporto materiale e politico, ma anche di creare narrazioni capaci di spingere, per una sorta di eterogenesi dei fini, persone dalla visione del mondo profondamente diversa a collaborare concretamente per gli interessi imperiali di Washington. Se si vogliono citare due grandi manifestazioni di questa capacità si può pensare in primis all’operazione di infiltrazione e manipolazione dell’estrema sinistra nata con la creazione del Congresso per la lIbertà Culturale, creato nel 1950 e arrivato a collegarsi a figure fondamentali dell’intellettualità radicale come Adorno e Horkheimer, proseguita poi a livello internazionale grazie all’operazione CHAOS, e in secondo luogo alle speculari operazioni portate avanti all’interno della destra radicale, dalla costruzione sotto patrocinio atlantico di quell’asse tra repubblichini ed ex-partigiani anticomunisti che ha portato alla formazione dei Nuclei per la Difesa dello Stato, alle varie progettualità golpiste e ai lasciti del convegno dell’hotel Parco dei Principi sulla “guerra rivoluzionaria” del 1965, e che radunò per iniziativa occulta del Ministero della Difesa personaggi chiave dell’eversione neofascista degli anni successivi, da Stefano Delle Chiaie a Pino Rauti.

Al contrario, le forze antimperialiste mostrano nel complesso una decisa inferiorità al nemico in questo campo, causata soprattutto dall’incapacità di sfruttare a pieno i nuovi strumenti digitali. E’ sintomatico il fatto che al moltiplicarsi di video, immagini e altri prodotti mediatici provenienti da parte nemica non si riesca, tranne con rare eccezioni già menzionate, né dai fronti di battaglia, né dalle piazze a rispondere in maniera adeguata. Volendo citare un esempio, non esiste un corrispettivo “russo” delle celebri foto dei manifestanti georgiani colpiti dai getti d’acqua delle forze di sicurezza: la ragione non è la mancanza di materiale, ma un’impostazione operativa non al passo con i tempi. La debolezza di quello che è chiamato dagli anglosassoni “soft power” dimostrata, e riconosciuta, da russi e cinesi si scontra con una situazione internazionale che oggettivamente è ogni giorno più propensa ad interessarsi ad una narrazione alternativa rispetto a quella proposta dall’asse Washington-Bruxelles e a visioni del mondo differenti. La crescita della popolarità della Federazione Russa e della Repubblica Popolare Cinese in Africa si deve infatti più alle condizioni oggettive che a quelle soggettive, nonostante i positivi sforzi di emittenti come Russia Today di adattare i propri contenuti a un pubblico africano, o di iniziative diplomatiche di alto livello come il Forum per la Cooperazione Sino-Africana.

Al netto delle fantasiose narrazioni sulla pretesa “influenza russa”, i paesi occidentali sono il terreno più difficile per la diffusione di prospettive favorevoli al mondo multipolare. Questo non solo per la saturazione mediatica e l’egemonia culturale delle centrali imperialiste, ma anche per la difficoltà oggettiva di elaborare un messaggio che possa essere appropriato per il pubblico occidentale, da decenni ormai abituato a ragionare secondo il mantra del “non esiste alternativa”. A questo fine giocano un ruolo fondamentale i rischi di un nuovo conflitto mondiale portati dal crescente bellicismo della NATO e degli Stati Uniti. Ciò, unito alle conseguenze economiche dello spolpamento dell’economia europea ad opera della finanza statunitense, rappresenta la “porta d’ingresso” attraverso la quale introdurre elementi d’analisi critica della realtà e proposte di letture alternative di processi in corso. Per quanto sia indiscutibile un certo impegno russo in questa direzione, si pensi alle interviste rilasciate dal presidente Putin e da Lavrov al giornalista statunitense Tucker Carlson, è anche in questa parte del mondo riscontrabile come il cambiamento degli atteggiamenti dell’opinione pubblica dipenda maggiormente dal deterioramento oggettivo delle condizioni socio-politiche rispetto a qualsiasi impegno soggettivo informativo della Federazione Russa.

Questa situazione amplifica la responsabilità delle forze che dall’interno dell’Occidente lottano contro l’egemonia statunitense, a favore dell’indipendenza nazionale e di un mondo multipolare. Esse scontano la debolezza data dalla loro disorganizzazione e frammentarietà, ma sono costrette dalle esigenze materiali a mettere all’ordine del giorno il problema dell’efficacia delle loro narrazioni e del loro impatto sui rapporti di forza sociali, politici e culturali. Il fatto che al momento in Occidente non vi sia attività militare che contrappone gli imperialisti alle forze di liberazione ciò non significa che non si possa parlare di guerra. E’ infatti sbagliato leggere lo scontro interno all’Occidente come un qualcosa di esterno o separato dal conflitto internazionale in corso. Come è stato detto, è ormai riconosciuto come la componente non-militare abbia un'importanza crescente negli scontri bellici. Le forze di resistenza antimperialista presenti in Occidente dovrebbero prendere coscienza di ciò lavorando per divenire in grado di contrapporre alla operazioni di guerra psicologica condotte dal potere statunitense una forma di “guerriglia psicologica” in grado di indebolirlo.

Per ottenere ciò è necessaria la chiarificazione degli obiettivi strategici condivisi, ma anche uno studio accurato dei metodi operativi che il nemico impiega per manipolare e ingannare l’opinione pubblica dei paesi occidentali. Serve fare propri gli strumenti d’azione che gli agenti dell’imperialismo adottano per le loro operazioni psicologiche, ritorcendoglieli contro. Non avendo a disposizione risorse statali o parastatali, è chiaro che le forze di resistenza attive all’interno dell’Occidente debbano lavorare su questi strumenti per svilupparli creativamente e adattarli al particolare contesto in cui si trovano ad operare. Ciò forse dovrebbe essere prioritario rispetto alla costruzione di micro-progetti elettoralistici.

Proprio per fronteggiare la scarsità di risorse si dovrebbe mettere l’accento sulla flessibilità delle operazioni e cercare di utilizzare la stessa forza del nemico contro di lui. Si dovrebbero sfruttare le componenti più fanatiche e oltranziste del fronte euro-atlantista per suscitare quella copertura mediatica “tradizionale” che altrimenti sarebbe negata; si dovrebbero avviare campagne mirate per alimentare le divisioni in campo avverso, sfruttando temi divisivi e inimicizie personali per fomentare disunione; si dovrebbe avere anche la spregiudicatezza di agire in maniera provocatoria, promuovendo operazioni informative e mediatiche “sotto falsa bandiera” per delegittimare le forze imperialiste e le loro narrazioni; si dovrebbero raccogliere informazioni, sia tramite l’OSINT che tramite contatti personali, sulle iniziative e i progetti di parte avversa. Tutto ciò, per quanto potrà sembrare lontano dalla lotta politica “tradizionale”, ne è sempre stato alla base, per quanto in maniera poco visibile. Davanti a un nemico che minaccia l’annientamento atomico dell’umanità e in una fase storica in cui è concretamente possibile abbatterlo si deve prendere coscienza del proprio compito e operare in maniera opportuna e completa per la conquista dell’indipendenza nazionale e la costruzione di un mondo multipolare e di una comunità umana dal futuro condiviso.

 

 

[1] https://t.me/TheSimurgh313/46769

[2]  Qiao Liang, Wang Xiangsui, Unrestricted Warfare, Beijing, PLA Literature and Arts Publishing House, 1999, pp. 206-207.

Leonardo Sinigaglia

Leonardo Sinigaglia

Nato a Genova il 24 maggio 1999, si è laureato in Storia all'università della stessa città nel 2022. Militante politico, ha partecipato e collaborato a numerose iniziative sia a livello cittadino che nazionale.

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