Fulvio Grimaldi - Venezuela, diario di una rivoluzione. ASSASSINIO DELLA FELICITA’
di Fulvio Grimaldi per l'AntiDiplomatico
Quando Iris fiorì
L’alberghetto di Caracas si chiamava Cristal. Non me lo ricordavo. Se ne è ricordata, Sandra, la Mnemosine di casa. Ma lei si chiamava Iris e non la dimentico. Siamo ai primi del nuovo millennio, in mezzo a una rivoluzione. Iris lavorava al Cristal, era un po’ sfiorita, curva e magra, il vestito lindo, ma stazzonato, liso. Adibita a funzioni di scarto, neanche cameriera, o addetta al piano. La incrociavamo nei corridoi, sempre indaffarata – e affaticata - su non si capiva bene cosa. Portava, trasportava, spazzava. Non credo avesse famiglia, era sempre lì, a tutte le ore. Ma venne il giorno della festa e il Comandante avrebbe parlato e sarebbero stati centomila ad ascoltarlo. Tutto un fremito di massa, ve lo giuro. Ti passava dentro, come toccare un filo elettrico.
Poi vidi Iris. Ma non tra i tanti, per le strade, nelle piazze, alle finestre e dai portoni. L’ho vista appoggiata a uno stipite del portone del Cristal. Trasfigurata. Nessuno la vedeva, ma lei vedeva tutti. Non più chiusa nello stinto indumento stazzonato, sfolgorava nella maglietta rossa con sopra Ugo Chavez. Come tutti là fuori. Radiosa lei, radiosa la giornata, radioso il comandante lassù sul palco che intonava “El cielo de la patria es el cielo mas divino… E centomila esplodevano nel coro. Anche Iris era radiosa. Leggera, come sospesa a mezz’aria. Poi qualcuno la richiamò dentro. La rivoluzione non aveva fatto in tempo a toccarla. Ma lei l’aveva adocchiata.
Iris, lì sullo stipite, mi ha fatto vedere la rivoluzione. E la rivoluzione profumava di felicità. Intollerabile per quelli là fuori, infelici. Oggi con i cannoni e missili puntati sulla felicità.
I miei ricordi di buona parte del mio ultimo quarto di secolo, la più felice, appunto, perché condivisa con tutto ciò che mi circondava, non saranno una grande analisi politica, sociale, ideologica, ma sono quanto del Venezuela custodisco e quanto sostiene la mia fiducia nell’uomo. Nella possibilità di uscirne, dall’oggi di Trump, Netaniahu, Meloni, von der Leyen, Paolo Mieli, Galli della Loggia- La possibilità, la certezza, del riscatto..
Il link qui sopra vi porta a “Techos de carton” di Ali Primera, il cantautore della rivoluzione sognata e voluta (morì in un molto sospetto incidente automobilistico nel 1985.. Mancavano14 anni alla rivoluzione di Chavez). Un musicista di grande inventiva, un poeta, un militante. Mi dà l’impressione di qualcosa di eccelso, come un incontro magico tra Fabrizio de Andrè, Lucio Dalla e Pierangelo Bertoli.
.png)
Ali Primera
Questa canzone, che voglio immaginare stiate ascoltando, dice “Come è triste ascoltare la pioggia sui tetti di cartone”/ Come è triste la vita della mia gente nelle case di cartone / Ne scende l’operaio / Trascinando il passo per il peso del dolore/ Vedi quanto soffro/ vedi quanto pesa la sofferenza / Sopra lascia la moglie incinta/ Sotto sta la città. / Lui si perde nella sterpaglia / Oggi è come ieri / Nella sua vita senza domani…”
Arrampicati sulle colline tra il mare e Caracas e a ridosso della capitale, i ranchos, che in Brasile chiamano favelas, al tempo di questa canzone ospitavano milioni di poverissimi in migliaia di baracche di plastica, cartone, lamiera. La bonifica iniziata da Chavez, proseguita da Nicolàs Maduro, successore del Comandante dal 2013, le ha eliminate o trasformate in dignitosi quartieri. Non è che una delle trasformazioni, radicali come forse solo a Cuba e in Nicaragua, ma dalle dimensioni decuplicate, che ha fatto del Venezuela un modello di governance e di convivenza che il colonialismo di predazione è tenuto assolutamente a rimuovere.
Un cortile di casa che molla la casa
Negli anni di Chavez, il contagio diffuso dall’esempio del Venezuela ha mutato la fisionomia del famigerato “cortile di casa yankee”, con la creazione di aggregazioni impegnate nell’autodeterminazione e in più equi rapporti di scambio. Il Mercosur, mercato di scambi latinoamericani, fuori e contro i criteri padronali del WTO; la CELAC, Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi, creata in alternativa all’OSA, Organizzazione degli Stati Americani, di stretta obbedienza yankee; Petrocaribe, pura munificenza solidaristica antimperialista, che provvedeva ai paesi in trincea risorse energetiche a prezzi da Black Friday. Infine e su tutto l’ALBA, Alleanza Bolivariana per le Americhe (Antigua e Barbuda, Bolivia, Cuba, Dominicana, Grenada, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent, Grenadine e Suriname, Honduras), Stati che si sono ispirati al modello sociale e antimperialista chavista.

Un aggregato che in parte ha resistito, in parte si è lacerato e ha perso pezzi sotto il rilancio di una specie di Operazione Condor 2, a partire dalle strategie neocoloniali del Deep State e della prima presidenza Trump, caratterizzata da feroci sanzioni ai paesi disobbedienti, in primis al capofila venezuelano. Ora, col secondo Trump, il cui anelito al Nobel della pace prende la forma del moltiplicarsi esasperato di un’aggressività economica e militare urbi et orbi, pare si sia a una specie di resa dei conti tra velleità di ricupero di un impero liso e cadente, passato al gangsterismo mafioterrorista, e le roccaforti dell’emancipazione latinoamericana che resistono.
Per quel che riguarda l’eterna bestia nera dei gringos, inventato un Venezuela (dichiarato dall’ONU esente da problematica narcos) narcotrafficante, siamo all’assedio delle coste venezuelane. E colombiane, ora che ai narcopresidenti e ai paramilitari da utilizzare come contractors per le imprese sporche USA in giro per il mondo (e soprattutto contro il Venezuela), è succeduto un presidente, Gustavo Petro, solidale con Caracas e che si caratterizza già solo per aver rotto le relazioni diplomatiche con lo Stato genocidario di Israele.
.jpg)
Trump vi ha concentrato la più grande flotta mai vista dai tempi dell’invasione del Panama, 10.000 Marines nella colonia Puerto Rico. Ha affondato una decina di barche di pescatori chiamandoli narcotrafficanti (una sessantina di morti), si è inventato il Venezuela produttore-esportatore di Fentanyl e Maduro capo narcos di inesistenti cartelli e gli ha dedicato una taglia da 50 milioni (subito offerta al pilota dell’aereo presidenziale, che l’ha respinta), ha agevolato sedizioni sollecitando il Nobel della Pace alla golpista Maria Corina Machado, ha autorizzato la CIA (implicito il Mossad, praticissimo della regione) al lavoro sporco in Venezuela, assassinio compreso.
E sogna, al momento è un’ipotesi, di bombardare e sfasciare le strutture strategiche del Venezuela onde innescare un malessere che porti alle ennesime guarimbas (tumulti scatenati dall’opposizione ogniqualvolta le elezioni erano vinte da quello sbagliato e di cui un carattere distintivo erano i cavi d’acciaio tesi attraverso la strada, destinati a decapitare poliziotti in motocicletta). Tanto da arrivare alla sostituzione di Maduro con l’ennesimo fantoccio senza l’ombra di una qualche credibilità, tipo Juan Guaidò (subito riconosciuto anche da Roma), e al passaggio del più vasto giacimento di idrocarburi del mondo dallo Stato, cioè dal popolo, a Exxon, Chevron e cugini esteri, con la conseguente fine di quella pesante seccatura che sono il chavismo e il bolivarismo e il loro perverso modello di equità sociale e autodeterminazione.
E mica ci prova da ieri. Prima del ruggito tonitruante lanciato sulle coste venezuelane dalla Gerald Ford, la più grande portaerei del mondo, aveva cominciato a rosicchiare, a fare il topo, prendendola alla larga, tanto per vedere “che effetto che fa”. Provato a massacrare il Venezuela con una grandinata di sanzioni che nemmeno l’Iran (40.000 morti da carestie e privazione di prodotti e strumenti sanitari negli anni del primo mandato), ma che Maduro ha saputo parzialmente neutralizzare, sostenuto da Cina, Ruissia e Iran, fino addirittura a recuperare, unico in Sudamerica, l’autosufficienza alimentare.
Un paese da pezzente a benestante

Chavez e il presidente dell’Iran Ahmadinejad
C’ero quella volta, secondo mandato di Chavez, in cui allo stadio di Caracas decine di migliaia e alcuni paracadutisti delle FANB (Forze Armate Nazionali Bolivariane, quelle oggi, unite e coordinate con le milizie civili, mobilitate alla difesa del paese) spettacolarmente volteggianti e poi atterrati ai piedi del palco, celebravano la raggiunta alfabetizzazione del 97,8% di un popolo di 28,5 milioni. Quella dell’alfabetizzazione era la Mision Robinson. Le Misiones sono una trentina di grandi progetti strategici nella marcia verso il socialismo: casa, terra, sanità, governo locale, modellato sulla Comune di Parigi, istruzione superiore, istruzione per adulti, terra a chi la lavora, mercati dell’alimentazione a prezzi calmierati, cura veterinaria gratuita, ambiente, diritti degli indigeni….
Quando arrivai a tre anni dalla prima vittoria elettorale di Chavez e dalla nuova Costituzione (che porta forti somiglianze con la nostra e, addirittura, con quella, prodigiosamente ante litteram, della Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini, difesa da Garibaldi), la povertà era stata già ridotta dal 54 al 27%, la disoccupazione dal 17 al 7%, l’orario di lavoro era di 6 ore e stavano sorgendo le prime delle 29 nuove università pubbliche che avrebbero sottratto alla Chiesa il controllo dell’istruzione. Se ne risentì fortemente il cardinale Pietro Parolin, allora nunzio apostolico in Venezuela e poi segretario di Stato degli ultimi due papi.
Di quel controllo, perseguito in tutto il mondo cattolico ebbi prova dove si era esercitato nel senso di non esercitarlo. Ma in mancanza dell’oggetto. Cioè della scuola, oggetto sconosciuto nelle aree degli indios della foresta. Quelli sopravvissuti a un altro intervento dei diffusori della Croce, qualche secolo fa.
Insieme a Sandra, compagna e collaboratrice nella realizzazione di documentari, percorremmo l’Amazzonia venezuelana in una leggendaria navigazione fuori dal mondo, lungo il Rio Orinoco, un fiume vasto come un mare che corre dal confine col Brasile all’Atlantico. Gli indios vivevano in grandi palafitte lungo le rive, si arrampicavano su alberi altissimi per non so quale scopo e pascolavano bufali d’acqua e quando la nostra barca, poco più di una canoa, approdò a uno di questi insediamenti, era da pochi giorni arrivato anche il primo insegnante delle Superiori da inaugurare. Un primo intervento dello Stato in una comunità della caccia e pesca che per il resto, cibo, abitazione, strumenti, era da secoli del tutto isolata e, per mancanza di strumenti e percorsi, senza la minima voce politica in capitolo.

Una fortuita coincidenza segnò il mio arrivo in Venezuela con il primo tentativo imperialista di regime change: il golpe militare dell’aprile 2002. Fu tentato da un gruppo di ufficiali, richiamati all’ordine coloniale da Washington, sfuggiti alla “rieducazione patriottica” che Chavez aveva iniziato a promuovere tra i quadri, fin da quando era colonello dei paracadutisti sotto il despota Carlos Andres Perez. Nominarono presidente Pedro Carmona, capo della Confindustria. Colpo di Stato grottesco, subito neutralizzato da una mobilitazione di massa. Sequestrato in una base militare, Chavez venne liberato a furor di popolo nel giro di 48 ore. 48 ore che ai golpisti e alla polizia non bonificata sono bastati per uccidere una sessantina di persone.
In quelle 48 ore ero su un cavalcavia che supera il grande viale che dal centro città porta alla collina di Miraflores, il palazzo presidenziale. Sotto, passava un fiume di gente diretta al palazzo, a rivendicare il ritorno del presidente. Sopra, un manipolo di uomini armati, manovalanza golpista, sparavano sulla folla in basso. Li animava una giovane donna, Maria Corina Machado, ormai ventennale esperta in golpismo, fiduciaria del Dipartimento di Stato. Oggi Premio Nobel della Pace, va invocando l’intervento militare di Trump.
Vinse il popolo, ma dovette resistere al “paro”, una serrata della società petrolifera PDVSA, ancora parte del cartello delle majors angloamericane, che paralizzò il paese per riuscire là dove i militari felloni avevano fallito. Il Chavez liberato s’era messo a girare il paese a infondere coraggio, fiducia, resistenza. Raccontò di essere stato ospitato in pieno “paro” da una vecchia signora che gli disse. “Quello che vedi bruciare nel forno è la mia ultima sedia”. Non una goccia di combustibile, di carburante doveva uscire dalle raffinerie e dai benzinai. Il governo reagì facendo aprire a forza dall’esercito le stazioni di servizio. A >Caracas, un accogliente Ufficio Giornalisti Stranieri mi aveva provvisto di lasciapassare e perfino di compagno autista con vettura, Leopoldo, uomo dei ranchos.. Il “paro” doveva paralizzare il paese, soffocarne l’economia, impedire che passasse nelle mani del popolo.
Misiones per un altro mondo
Con Leopoldo, muniti di taniche forniteci dal Ministero dell’Agricoltura, andammo a pizzicare la rivoluzione giovinetta dove iniziava a farsi le ossa. Da Zulia sulle Ande, a Miranda affacciata sui Caraibi, all’immenso Bolivar, balcone sul Brasile, in poco più di un mese ci facemmo buona parte dei 23 Stati della Federazione. Ricordo, nella piana dello Stato di Guàrico, il mio primo Mercal. L’omonima Mision aveva allestito in tutto il paese mercati di generi di prima necessità a prezzi ridotti di due terzi Mercati che avrebbero servito il 40% della popolazione, dal pane al riso e allo zucchero, dalle zucche alla carne e alla farina, dai meloni ai mango, dalle uova al pollo, dai vaccini agli esami per la patente e a quelli della vista e del sangue, gratuiti questi. Dal produttore al consumatore, niente vampiri intermediari, caporali, grandi distribuzioni. Una folla stupita, elettrizzata, sorrisi ovunque: la fisionomia di tutta la rivoluzione.
Leopoldo si commuoveva facilmente. Dal mangianastri in macchina uscivano le note di “Techos de carton”, la canzone di Ali Primera sulle drammatiche condizioni di vita nelle favelas, da dove anche lui veniva. Per la rabbia, tirava dei cazzotti al volante. La faccia era rigata dalle lacrime. Mi portò tutto fiero, ormai amicissimo, a incontrare per un caffè la sua famiglia, moglie giovanissima e già due bambini. Li vedo ancora, mentre mi salutano dalla porta di una casetta nuovissima, bianchissima di calce fresca, finalmente in muratura, bella gialla e con tetto di tegole.
Incontro Guadalupe nel mitico quartiere carachegno “23 de Enero”, avanguardia della rivoluzione urbana. Quello che già nel Caracazo del 27 febbraio 1989, aveva provato a buttare per aria il regime di Carlos Andres Perez, proconsole degli Stati Uniti, per i quali aveva privatizzato ogni cosa, dal petrolio ai minerali, alle acque, alle foreste, ai campi, ai trasporti. Anche nel 1992, anno di un tentativo insurrezionale del colonello Chavez, “23 de Enero” era stato l’innesco della lotta e la sanguinosa vittima della repressione.

Guadalupe è una militante della Coordinadora Simon Bolivar e, forte di quei precedenti, era stata alla testa dell’assedio ai golpisti del 2002. Ora partecipava al lavoro di emancipazione del grande quartiere secondo i criteri proposti da Chavez: autogestione, governo in simbiosi con la popolazione, alfabetizzazione, un’università pubblica, asili, pronti soccorsi, nuclei di sviluppo endogeno (in questo caso fabbriche di scarpe e di confezioni. In bella vista le magliette rosse con il volto di Che Guevara, o la scritta, ubiqua nel paese,:”Socialismo o barbarie”).
Incrociammo Chavez in un piccolo aeroporto dello Stato di Cojedes, non ricordo dove. Gli chiesi com’era andata con quel sequestro. Mi chiese da dove venissi. Poi, affabilissimo e, come avrei notato sempre, di gioioso e allegro umore: “Ah, dall’ Italia, dove avete ammazzato il vostro presidente. Lo sapete, no, che sono stati i gringos a far ammazzate Moro? Pure qui ci stanno provando…Ma qui abbiamo una rivoluzione che sa come rispondergli, ai gringos”
E mi diede appuntamento a San Carlos, nel sud, dove avrebbe incontrato i contadini: “Quattro terratenientes avevano terre grandi quanto il tuo paese. E non ne cavavano niente, solo rendita. Gliela toglieremo…” A San Carlos mi chiamò sul palco e mi diede modo di riprenderlo da vicino, in primo piano, lui e poi le facce della sua gente, con quello che vibrava tra l’uno e gli altri (me lo ricordo bene perché ce l’ho nel mio documentario “Americas Reaparecidas”. Un altro, successivo, fatto assieme a Sandra, si intitola “L’Asse del bene”).
Il primo dei travolgenti - per la folla, come per lui, come per me – incontri con il suo popolo, lo vissi appunto a San Carlos, davanti a migliaia di campesinos sin terra in camicia o maglietta rossa bolivariana, arrivati da tutto lo Stato di Cojedes. Annunciò il passaggio della terra nelle loro mani. Più tardi distribuì dei titoli di proprietà. Con tanto di trattori., già allineati a decine lungo la strada. Avrei visto una cerimonia analoga, in un rancho sopra Caracas, quando i titoli di proprietà assegnati erano quelli delle case a coloro di cui parlava la canzone di Primera, quelli de los techos de carton. Commozione e gioia. Felicità.
Quelli della rivoluzione
Blanca Eekhout, sui vent’anni, laureanda, gestiva una radio libera sulla collina dei ranchos sopra Caracas. Un’amica negli anni. Fu decisiva, grazie all’ascolto raccolto con le sue trasmissioni a sostegno della rivoluzione e di come avrebbe cambiato la vita sotto los techos de carton, per la mobilitazione contro i golpisti e per la liberazione di Chavez. Fu un’intervista che mi diede a farmi percepire corpo e ragioni della condizione dei milioni confinati nei ranchos dai regimi precedenti e alle prospettive che il socialismo bolivariano gli apriva. La ritrovai più tardi direttrice di “Vive”, emittente bolivariana nazionale e poi ministra dell’Informazione e vicepresidente dell’Assemblea Nazionale.

Blanca Eekhout, una voce bolivariana
I quadri del nuovo Venezuela nascevano così. Ne ho incontrato tanti. Giovanissimi. Quale diversità abissale rispetto alle facce, ai portamenti, alle competenze, al linguaggio dei nostri notabili! Oggi sono perlopiù ancora quelli, fedeli alla consegna ricevuta, anche in assenza dell’immenso carisma del comandante.
Era un Venezuela in travolgente cambiamento e maturazione, tutti marcati da un incontenibile entusiasmo, partecipati da un popolo che passava di conquista in conquista, spazzando ostacoli interni e quelli che arrivavano dai tentativi di sabotaggio. Alle prime sanzioni economiche comminate da Bush con, tra l’altro, il blocco delle importazioni di prodotti e macchinari necessari all’agricoltura, si reagì un po’ come da noi in guerra: allestendo orti in tutti gli spazi pubblici. Ricordo come, affacciandomi dall’ albergo, vidi da un giorno all’altro allargarsi ettari coltivati all’ombra di due grandi palazzi ministeriali in pieno centro.
Nello scambio con il resto del mondo, coltivato con grande impegno dalla nuova classe dirigente, si consolidava, a partire dalle proprie coscienze e conoscenze, una rivoluzione che si intendeva universale, da condividere con tutti, con lo stesso impegno che l’imperialismo metteva a far accettare i suoi principi e metodi. Si succedevano – e si succedono tuttora - le manifestazioni di solidarietà e di lotta comune, le occasioni di incontro e di scambio di esperienze, pensieri, sentimenti, progetti, forme di lotta. Personalmente potemmo partecipare, nel corso degli anni, con Chavez, sempre amatissimo e dinamicissimo protagonista e poi con Maduro, a iniziative come il Tribunale Antimperialista, il Festival Mondiale della Gioventù e degli Studenti (una festa incredibilmente gioiosa di 17.000 partecipanti da 100 paesi), il Congresso Continentale degli Indigeni, di cui (ricordo la drammatica denuncia degli indios colombiani sottoposti ai massacri dei paramilitari del presidente, sodale dei narcos e famiglio degli USA, Alvaro Uribe) e, più recentemente e di grande attualità, il Congresso Mondiale contro il Fascismo.
Venezuela incontra il mondo

Chavez-Maduro, Festival Mondiale della Gioventù
A Chavez, data l’immensa popolarità, ben oltre i confini del suo paese, Washington fu costretta a risparmiare un’ostilità eccessiva, che si sarebbe riverberata negativamente su nazioni e popolazioni non solo latinoamericane, paesi che guardavano al nuovo Venezuela quanto meno con rispetto. Nel 2013, alla morte prematura del comandante, su sua stessa indicazione gli succedette un operaio, il sindacalista dei trasporti Nicolàs Maduro. Su Maduro, ora al terzo mandato, corre il lemma, non è Chavez. Affermazione apodittica, nessuno lo è.
Ma è il Venezuela che è Chavez e questo conta. Nulla del retaggio di Chavez è stato abbandonato e tradito. Le misiones della radicale trasformazione sociale continuano ad operare, ma gli ostacoli posti dall’Impero e dai gaglioffi che nei governi europei ne assumono gli ordini di servizio, non potevano, dato anche il contesto regionale cambiato in negativo, non imporre rallentamenti e anche arretramenti. In particolare della diversificazione produttiva, via dalla monoeconomia petrolifera, perseguita con accanimento da Chavez. Che comunque il popolo resti compatto in difesa della sua scelta bolivariana è ampiamente confermato dall’impressionante mobilitazione civico-militare organizzata in risposta alle recenti minacce trumpiane. Washington potrà forse scassare il Venezuela, ma riprenderselo, mai.
Le sanzioni, a partire dal primo Trump, si sono fatte feroci e totalizzanti. Così come la sovversione interna, fin lì rintanata nelle roccaforti dell’imprenditoria privata sopravvissuta (in buona parte italiana, particolarmente rabbiosa e reazionaria, di cui ho avuto squallida esperienza nell’ambiente consolare di Caracas). Si calcolano in 40.000 le vittime delle sanzioni negli ultimi sei anni. Ne è derivato inevitabilmente un forte indebolimento dell’economia e, di conseguenza, una riduzione delle misure di protezione sociale.
E’ su questo terreno che Washington prova ad affondare i suoi colpi con una combinazione di pressione militare e sovversione interna, che si spera alimentata da un crescente scontento popolare. Tutto questo è al momento eminentemente un wishful thinking, un auspicio, negli ambienti oltranzisti del rilancio imperialista. Rilancio che, tra Ucraina, Medio Oriente, Africa, Indopacifico e il fronte interno segnato dalla vittoria del “socialista” Zohran Mamdani a New York, si ritrova forse con tra le mani troppi impegni. Resta il dato che per gli Stati Uniti di Trump, di Biden, di Obama, di Bush, di chiunque, e per coloro che, come noi europei, gli beliamo dietro, un Venezuela così, un qualsiasi paese così, è semplicemente inaccettabile. Va rimosso. Ne va della vita come la vogliono costoro. Quelli del Forum Economico Mondiale, di Bilderberg, di Blackrock, di Ursula.
Ci fu a Caracas, indetto da Chavez e con la sua partecipazione durante tutti i tre giorni, un convegno internazionale “In Difesa dell’Umanità”. Tema che potrebbe apparire sovradimensionato, ma che, alla luce degli sviluppi in termini di fascistizzazione e guerre a gogò, risulta oggi del tutto fondato. Chavez volle raccogliere alcune domande dal pubblico. Io glie ne feci una e questo fu, più o meno, il seguito delle battute.
F.G. Comandante, le stesse vostre camicie rosse bolivariane le portavano da noi i garibaldini. Cosa hanno in comune le due situazioni?
U.C. Lo sai, Grimaldi, che quelle camicie Garibaldi, in Argentina chiamato “el diablo” quando guidava i rivoluzionari uruguagi, le ha adottate dai macellai dell’Uruguay, perché mimetizzavano il sangue? Poi, da voi in Italia è stato un libertador al pari del nostro Simon Bolivar. Sono certo che Garibaldi si sia ispirato a Bolivar. E voi italiani dovreste ispirarvi a lui. Ricorda che la prima cosa che il nemico fa contro un popolo, è di fargli dimenticare e non fargli onorare coloro che lo hanno liberato.
Come no.


1.gif)
