Capitalismo e conflitto: un sistema incompatibile con la Pace

A poco più di una settimana dalla firma dell’accordo di pace di Sharm el Sheikh la tregua a Gaza non regge con oltre 47 violazioni del cessate il fuoco. E anche il conflitto russo-ucraino, nonostante i contatti tra Trump e Putin, non sembra volersi raffreddare: la Commissione Europea propone un piano di riarmo da 6.800 miliardi di euro.

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Capitalismo e conflitto: un sistema incompatibile con la Pace

 

di Alex Marsaglia

 

Nonostante con Trump vi sia un sensibile cambio di rotta politico rispetto a Biden, pare che tutti i tentativi di portare a conclusione stabile un qualsiasi piano di pace nelle aree di conflitto naufraghino inesorabilmente. Una possibile spiegazione di questa difficoltà, anche della più spietata realpolitik trumpiana, nel portare a casa il seppur minimo risultato, emerge da quella che è una spinta immanente del modo di produzione capitalistico individuata per la prima volta da Rosa Luxemburg ne L’accumulazione del capitale (1913). La rivoluzionaria polacca teorizzò lo sviluppo della “teoria del terzo fattore” come elemento centrale che spingeva inesorabilmente il capitalismo a cercare una valorizzazione tramite il conflitto violento, scagliandosi contro elementi esterni al fine di accrescere il profitto del capitale inesorabilmente afflitto da crisi.

L’analisi verteva sulle leggi interne che governano la produzione capitalistica, le quali cercherebbero di trovare rimedio alla caduta tendenziale del saggio di profitto tramite l’impossessamento di settori precapitalistici ancora presenti nel mondo all’interno di vari paesi. Il capitalismo troverebbe così il modo di sopravvivere rivolgendosi ad un altrove sulla terra, ancora fermo in un settore precapitalistico, attraendolo così nell’ambito del processo di accumulazione di capitale e traendo nutrimento da tutto ciò che è ancora esterno a se stesso.

Come spiega bene Hannah Arendt «“l’accumulazione originaria del capitale” di Marx non fu, come il peccato originale, un evento singolare, un atto unico di espropriazione da parte della nascente borghesia foriero di un processo di accumulazione che avrebbe poi seguito “per ferrea necessità” le sue proprie e inerenti leggi, fino al collasso finale», bensì «al contrario, per mantenere il sistema in atto, l’espropriazione avrebbe dovuto essere ripetuta di volta in volta»[1]. Insomma, «il capitalismo (…) si nutriva di fattori esogeni e il suo crollo automatico si sarebbe potuto produrre, se si fosse prodotto, solo quando l’intera superficie terrestre fosse stata conquistata e inglobata»[2]. Questa teoria è stata poi ripresa e approfondita da vari teorici marxisti che hanno identificato le contraddizioni del modo di produzione capitalistico all’interno di relazioni sociali che vedono una larga parte della popolazione mondiale vivere all’interno di «formazioni sociali» risultate dai diversi complessi organizzati. In particolare, le formazioni sociali del capitalismo periferico diventerebbero particolarmente appetibili per il capitalismo cosiddetto “avanzato”. La «divisione internazionale del lavoro», che abbiamo visto operare durante questi anni di globalizzazione, ha potuto esprimersi proprio grazie a tali divisioni che sono la caratteristica distintiva dell’imperialismo che ha continuato ad operare sotto le mentite spoglie di un unico ordine globale pacificato. L’esportazione di capitali in veri e propri settori coloniali di produzione primaria, con l’estrazione di sovraprofitti, ha determinato l’approfondimento delle disuguaglianze che hanno accompagnato tutti questi anni in cui il liberoscambismo ha governato su scala mondiale.

In un sistema economico siffatto, basato sullo sviluppo ineguale e che continua a perpetuare diseguaglianza ed ingiustizia è però evidente come la pace diventi un concetto sempre più aleatorio e difficilmente afferrabile. La si idealizza, si cerca di codificarla nel diritto internazionale, ma non si riesce a stabilizzarla poiché come si raffredda un fronte di conflitto sembrano nascerne altri.

La realtà è che il capitale fatica sempre di più a valorizzarsi in un centro capitalistico afflitto da finanziarizzazione e delocalizzazione produttiva, dimenandosi in una crisi dei profitti da cui fatica ad uscire. Ed ecco che il capitalismo ricorre alle solite vecchie armi già identificate da Rosa Luxemburg: esportazione di capitali nelle periferie perpetuando «l’accumulazione per espropriazione» e protezionismo al fine di salvaguardare il più possibile i profitti. Così «il capitale ozioso non trovava possibilità di accumulazione in patria, mancandovi la richiesta di prodotti addizionali: ma all’estero, dove la produzione capitalistica non si è ancora sviluppata, una nuova domanda si è determinata in strati non-capitalistici, o la si determina con la forza». Lo scopo della produzione capitalistica non è mai l’uso, bensì l’accumulazione e il plusvalore per cui si sposta dove questa può esercitarsi con il massimo tasso di profitto. Dunque «l’essenziale è che il capitale accumulato nel vecchio paese trovi nel nuovo una rinnovata possibilità di produrre plusvalore e di realizzarlo, cioè di continuare l’accumulazione»[3].

In questo senso l’esempio vissuto negli ultimi mesi della “distruzione creatrice” attuato nella Striscia di Gaza è particolarmente paradigmatico, con il passaggio violento da un’economia mercantile semplice ad una sorta di smart city al fine di estrarre nuovo surplus da territori economicamente arretrati. L’investimento del capitale arriverebbe dai vecchi paesi capitalistici: USA, Israele ed UE all’unico fine di creare accumulazione, promuovendo un hub capace di proiettare l’intera Striscia di Gaza all’interno di una «formazione sociale» avanzata e postmoderna. Di questo si parla in sostanza nel piano colonialistico di Trump di Pax americana in Medio Oriente. Ovviamente nell’obiettivo dell’imperialismo restano anche tutti i Paesi socialisti, appartenenti ad un modo di produzione radicalmente alternativo al capitalismo in cui le materie prime e le risorse vengono socializzate: l’attuale assedio statunitense al Venezuela è finalizzato proprio allo smantellamento della Rivoluzione bolivariana, che arresterebbe la principale alternativa rivoluzionaria di liberazione dei popoli in America Latina nel XXI secolo.  Parallelamente, spostandoci sul fronte della guerra commerciale, l’esaurimento della spinta liberoscambista non poteva che avanzare unitamente alla crescente militarizzazione. Anche questa dinamica capitalistica venne già identificata da Rosa Luxemburg, quando analizzava come «il moderno sistema degli alti dazi protettivi - che corrisponde alla espansione coloniale e agli acuiti contrasti all’interno dell’ambiente capitalistico - è stato inaugurato come base essenziale dell’enorme sviluppo degli armamenti». Così rilevava come «il ritorno al protezionismo si compie parallelamente al potenziamento dell’esercito e nel suo interesse, come base del sistema ad esso contemporaneo della corsa al riarmo europeo»[4]. Non è curioso constatare che mentre gli Stati Uniti tornano a rilanciare i dazi al 100% sulle importazioni cinesi, la Commissione Europea abbia presentato un aggiornamento del Readiness Europe (https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/10/16/piano-difesa-europea-investimenti-minacce-notizie/8162678/) in cui la cifra stanziata per il bilancio straordinario di guerra sia passata dagli 800 miliardi alla mostruosa cifra di 6.800 miliardi di euro? Il nuovo nome è ovviamente appartenente all’universo distopico, per cui occorre fare la guerra per preservare la pace, dunque Preserving Peace è il piano che conterrà i 4 progetti d’importanza strategica (European Drone Defence Initiative, Eastern Flank Watch, European Air Shield e Defence Space Shield) per militarizzare completamente la società europea da scagliare contro la Russia al fine di completare la grande «accumulazione per espropriazione» rimasta incompiuta con la fine dell’era Eltsin dopo la controrivoluzione del 1989. Putin dal canto suo ha replicato che la Russia risponderà al piano di militarizzazione, poiché «la sicurezza non si realizza a spese di un altro Paese».

Tramite questa militarizzazione massiccia, le autorità dell’Unione Europea pensano così di educarci a passare oltre la faccia pulita del capitale, quella liberoscambista della “concorrenza pacifica” dello scambio di merci e del progresso. Quest’ultima è ormai degradata, e intendono farci ritornare alla più cieca violenza politica che «non è altro se non il veicolo del processo economico», in cui «le due facce dell’accumulazione del capitale sono legate organicamente l’una all’altra dalle condizioni della riproduzione e solo in questo loro stretto rapporto il ciclo storico del capitale si compie». Poiché «il capitale non soltanto nasce “sudando da tutti i pori sangue e fango”, ma si impone gradatamente come tale in tutto il mondo»[5] intendono portare l’Europa in guerra e stanno investendo tutti i capitali disponibili per farlo, ricorrendo a prestiti sempre più onerosi per una società già fortemente impoverita da una crisi economica mai veramente superata. Lo scopo è salvare il capitale, anche a costo di sacrificare popoli e persone. Ed è per questo che è sempre più difficile credere alla Pace in un sistema che sta cercando deliberatamente il conflitto per salvarsi.

 

[1] H. Arendt, L’umanità in tempi bui. Rosa Luxemburg 1871-1919, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 61-62

[2] Ivi, p. 62

[3] R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, PGreco edizioni, Milano, 2012, p. 427

[4] Ivi, p. 453

[5] Ivi, p. 454

Alex Marsaglia

Alex Marsaglia

Nato a Torino il 2 maggio 1989, assiste impotente per evidenti motivi anagrafici al crollo del Muro di Berlino. Laureato in Scienze politiche con una tesi sulla rivista Rinascita e sulla via italiana al socialismo, si specializza in Scienze del Governo con una tesi sulle nuove teorie dell’imperialismo discussa con il prof. Angelo d’Orsi. Redattore de Il Becco di Firenze fino al 2021. Collabora per un breve periodo alla rivista Historia Magistra. Idealmente vicino al marxismo e al gramscianesimo. Per una risposta sovranista, antimperialista e anticolonialista in Italia e nel mondo intero. 

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