Biden mette la regina delle fake news russofobiche a capo del nuovo Ministero della Verità

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Biden ha istituito il Disinformation Governance Board che ha il compito di contrastare le Fake news, con particolare riguardo alla Russia, cioè alla guerra ucraina. A dirigere il nuovo organismo è stata chiamata Nina Jankowicz (lo hanno riferito indiscrezioni mediatiche confermate dall’interessata).

La Jankowicz, scrive Antiwar è stata “disinformation fellow” presso “il Wilson Center ed è stata consulente del ministero degli Esteri ucraino nell’ambito della Fulbright Public Policy Fellowship, un programma gestito dal Dipartimento di Stato. La Jankowicz ha anche supervisionato programmi diretti a Russia e Bielorussia presso il National Democracy Institute, una Ong finanziata dal governo statunitense” (per intendersi una di quelle Ong che creano dissidenti e attivisti nei Paesi attenzionati dal Dipartimento di Stato).

La donna si è specializzata in disinformazione, in particolare russa, e sul ruolo della disinformazione nelle guerre moderne e future. Così recita la presentazione del suo libro più noto, pubblicizzato su Amazon: “Dall’inizio dell’era Trump, gli Stati Uniti e il mondo occidentale hanno finalmente iniziato a svegliarsi riguardo la minaccia posta dalla guerra online e sugli attacchi della Russia”.

“La domanda a cui nessuno sembra essere in grado di rispondere è: cosa può fare l’Occidente al riguardo? Gli Stati dell’Europa centrale e orientale, tuttavia, sono consapevoli della minaccia da anni. Nina Jankowicz ha consigliato questi governi in prima linea nella guerra dell’informazione. Le lezioni che ha imparato da questa lotta e i suoi tentativi di convincere il Congresso degli Stati Uniti ad agire, costituiscono una lettura essenziale”.

Fin qui il suo ruolo di consigliere, che non è stato affatto marginale avendo interloquito spesso con il Congresso Usa (vedi anche sulla biografia ufficiale), e la sua intuizione profetica riguardo alla necessità di “agire” contro la Russia.

Nella sua lotta contro i russi è però inciampata in una polpetta avvelenata, avendo sponsorizzato il dossier Steele, fabbricato da un’ex spia britannica per rivelare al mondo la collusione di Trump con Mosca.

Dossier che si è poi rivelato non solo farlocco, ma anche mal confezionato, essendo basato sulle dichiarazioni di un tale spacciato per una fonte russa ben inserita nei gangli dello stato, rivelatosi invece un ciarlatano russo da tempo residente negli States e senza alcuna sorta di informazioni.

Non solo, la Jankowicz ha anche cavalcato l’ondata di rigetto per la storia del computer di Hunter Biden, circolata durante la recente campagna elettorale che ha contrapposto il padre a Trump, rilanciando più volte le smentite delle autorità sul tema (Newsweek).

Peccato che poi la storia dell’esistenza di tale computer, che conterrebbe materiale compromettente per il figlio del presidente, si sia rivelata vera (anche se poi a ritirarla fuori sono stati gli stessi che prima la smentivano, dal momento che serviva ai loro scopi, sul punto vedi Piccolenote).

Insomma, a capo dell’organo che dovrebbe vigilare sulla disinformazione è stata messa una donna che ha propalato disinformazione a man bassa e ha lavorato con le autorità ucraine. Non promette nulla di buono.

D’altronde, il New York Times aveva spiegato subito dopo l’invasione ucraina come per vincere la guerra contro la Russia sia necessaria la disinformazione, come viene definita la menzogna mediatica. Confessione che fa il paio con le dichiarazioni di alcuni dirigenti dell’intelligence Usa, che hanno candidamente ammesso di propalare menzogne sul conflitto in corso.

Ovviamente, la campagna di disinformazione/anti-disinformazione americana riguarda anche gli Stati clienti degli Stati Uniti, la cui stampa mainstream non può discostarsi, tranne rare eccezioni che confermano la regola, dalle narrazioni d’oltreoceano.

Ma, evidentemente non soddisfatti della canea di trinariciuti cronisti, opinionisti e analisti che al di qua dell’oceano riecheggiano i dogmi della nuove religione bellicista, nonché infastiditi dalle poche e a volte confuse voci discordi, gli Stati Uniti hanno messo mano al portafogli per incrementare la canea suddetta di nuovi sacerdoti dell’informazione ufficiale.

Così, nel nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina, 33 miliardi di dollari, approvato ieri dal Congresso Usa, si può leggere che una parte sarà destinata a “contrastare la disinformazione e le narrazioni propagandistiche russe, alla ricerca delle responsabilità russe per la violazione dei diritti umani e a supportare attivisti, giornalisti e media indipendenti per difendere la libertà di espressione”. Dove la parola che suona più ironica è “indipendenti” (così sul sito ufficiale della Casa Bianca). Questa la tragica realtà di una guerra spacciata come una battaglia tra democrazia e autocrazia.

In genere, si obietta che in Russia i cronisti dissidenti chiudono i battenti o li mettono in galera, mentre qui hanno ancora diritto di tribuna. Vero, la metodologia occidentale, almeno ad oggi, è meno brutale e più raffinata, anche se il confronto va fatto con l’Ucraina, l’altro Paese direttamente belligerante, dove i traditori, cioè i dissidenti, sembra che non abbiano un destino molto felice.

Ma, al di là delle diatribe del caso, che non interessano, la realtà è che non è grazie ai bellicisti neocon, che oggi dirigono l’orchestra, che l’Occidente ha conservato la democrazia, ma proprio grazie a quanti, di varia estrazione, si sono opposti alla loro follia, che oggi sta mettendo a rischio la tenuta della democrazia occidentale e la stessa sopravvivenza dell’umanità.

 

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