Analfabeta a chi? A proposito del Dizionario politico minimo di Luciano Canfora
Recensione del "Dizionario politico minimo di Luciano Canfora" a cura di Antonio Di Siena*
di Alessandro Somma
La politica vive di parole, ma queste possono anche provocarne la morte. Succede quando il discorso pubblico viene schiacciato sul “pensiero unico”, quando una censura sovente impalpabile ma sempre pervasiva identifica il dicibile e pretende di tracciare confini netti con l’indicibile. Per “screditare qualunque forma di dissenso” semplicemente impedendo di pronunciarlo, e condannare così all’emarginazione “chiunque si faccia portatore di una visione critica”. Di più: per etichettarlo come “analfabeta politico” (xii) per il solo fatto di essere indisponibile a riprodurre le retoriche allineate ai luoghi comuni e cocciutamente impegnato a produrre un pensiero libero.
Se così stanno le cose, il tentativo di far rivivere la politica non può che passare da un’opera di nuova alfabetizzazione: di paziente ricostruzione delle parole del discorso pubblico che evidenzi le espressioni della sua corruzione e offra strumenti per contrastarla. Un’opera che metta in luce la virulenza delle semplificazioni: che dia conto della complessità del linguaggio e dunque della sua capacità di rendere la complessità della politica. E che così facendo lo porti a “ripoliticizzare lo spazio pubblico” (xiv).
A questo difficile compito si è dedicato Luciano Canfora nel suo ultimo libro, organizzato sotto forma di voci di un Dizionario politico minimo scritte in dialogo con Antonio Di Siena. Lo leggeremo qui a partire da tre coppie di voci che identificano ambiti particolarmente bisognosi di essere liberati dai condizionamenti del pensiero unico: fascismo e antifascismo, capitalismo e democrazia, Stato nazionale e Unione europea. Ovviamente il volume offre lo spunto per individuare molti altri percorsi. Qui abbiamo voluto evidenziare quelli incentrati sulle voci che, una volta risintonizzate con il pensiero critico, possono più di altre alimentare il moto verso il superamento degli equilibri da cui il pensiero unico trae il suo fondamento. Il tutto nella consapevolezza che ciò attiene alla capacità del pensiero critico di produrre conflitto sociale, senza il quale non è dato ripoliticizzare lo spazio pubblico.
Fascismo e antifascismo
Questa coppia di voci offre lo spunto per inquadrare concetti il cui uso e abuso caratterizzano in modo pervasivo il discorso pubblico, soprattutto per il loro utilizzo a sproposito o comunque catturato entro contrapposizioni prive di reale consistenza. Penso in particolare a coloro i quali reputano che il fascismo sia un fenomeno storico irripetibile e specularmente a quelli che il fascismo lo vedono ovunque ci sia un pensiero diverso dal proprio. Il tutto con ripercussioni sull’opposto del fascismo, ovvero sull’antifascismo, che per i primi è semplicemente un concetto privo di senso e per i secondi l’espressione un impegno politico talmente carico di implicazioni da non averne alcuna.
Ebbene, affermare che il fascismo è un fenomeno storico è evidentemente una banalità difficilmente contestabile, non tuttavia se con questo si intende affermare che esso è irripetibile. O meglio lo è dal punto di vista dello storico, il quale sa bene che gli avvenimenti che scandiscono il tempo non si presentano mai identici a loro stessi. Non lo è invece dal punto di vista del confronto politico, dal momento che ben può esserci un presente che ricorda da vicino vicende del passato o più facilmente avvenimenti da cui quelle vicende hanno tratto fondamento.
Da un simile punto di vista è però fondamentale chiarirsi sul senso di ciò che è stato il fascismo, troppo spesso ridotto a quanto è avvenuto nel campo delle libertà politiche: la loro cancellazione. Tanto che proprio a questo aspetto si pensa istintivamente quando si pensa al fascismo, ben rappresentato da immagini tutte relative alla violenza politica: dalla bottiglia di olio di ricino, al manganello, passando per l’assalto alle sedi sindacali o l’assassinio degli avversari politici. Difficilmente si ricorda invece che il fascismo è stato anche la riforma, e si badi non la cancellazione, delle libertà economiche: che insomma vi è stato un fascismo economico, in massima parte assente dall’iconografia di quella fase drammatica della storia italiana ed europea.
Ce lo ricorda molto opportunamente Canfora nel momento in cui discute dei “due piani d’azione di Mussolini”: per un verso “una stretta politica in perfetta sintonia con i Savoia e i capitalisti” e per un altro “l’apertura verso le esigenze sociali” (66). Manca forse il riconoscimento che anche quest’ultima si è svolta in accordo con i capitalisti o meglio con quanto era indispensabile al fine di rendere il capitalismo storicamente possibile: non solo la repressione del dissenso ma anche forme di inclusione nell’ordine proprietario necessarie e sufficienti a prevenirne l’autofagia, prime fra tutte quelle di carattere redistributivo. Il tutto sulla scia di quanto messo in luce da Karl Polanyi nella sua celebre descrizione del fascismo come soluzione dalla “impasse raggiunta dal capitalismo liberale”[1], e sullo sfondo di quanto indicato dai padri del neoliberalismo. Questi volevano invero la trasformazione dello Stato nella mano visibile del mercato, chiamato a imporre la concorrenza come strumento di direzione politica o se si preferisce a tradurre le leggi del mercato in leggi dello Stato: a operare come “severa polizia del mercato”[2].
Insomma, come precisato da Canfora, il fascismo ha realizzato uno “Stato sociale autoritario”, senza che però debba provocare imbarazzo il riconoscerlo. Ciò che lo distingue dalla democrazia, oltre ovviamente al fatto di aver “portato l’Italia alla catastrofe” (69), è che in quest’ultima la sicurezza sociale non costituisce la contropartita per la rinuncia alla lotta politica. La sicurezza sociale è ora uno strumento di emancipazione che i pubblici poteri sono tenuti a fornire in virtù del riconoscimento dei diritti sociali: è esattamente questo che, a differenza dello Stato sociale, caratterizza e qualifica le democrazie.
Abbiamo così un primo punto fermo per identificare l’antifascismo in quanto negazione del fascismo, ovvero di una riforma delle libertà economiche funzionale a rendere il capitalismo storicamente possibile. Un secondo punto fermo lo individua Canfora nel momento in cui ricorda quanto Piero Calamandrei ebbe a dire dell’articolo 3 della Costituzione repubblicana, ovvero la disposizione in cui si dispone il principio di uguaglianza in senso sostanziale: “lo definì un articolo sovversivo” (8). Il tutto ribadito nell’affermazione, questa volta di Canfora, secondo cui “se uno volesse veramente applicare l’articolo 3… dovrebbe instaurare una vera e propria rivoluzione sociale” (33).
Il principio di uguaglianza in senso sostanziale è tale, ovvero si differenzia dal principio di uguaglianza in senso formale, perché implica il dovere dei pubblici poteri di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “di fatto” la parità. Il tutto non solo per promuovere attivamente “il pieno sviluppo della persona umana”, ma anche e soprattutto per consentire “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Altrimenti detto l’uguaglianza è tale perché produce emancipazione, ma questa non si risolve in vicende relative alla sola vita privata. Deve produrre altresì avere una dimensione che è squisitamente politica nella misura in cui attiene alla definizione dello stare insieme come società in quanto essenza della partecipazione democratica[3]. Di qui la radicale differenza rispetto alle ricette neoliberali, per intenderci quelle in linea con la definizione del fascismo come soluzione all’impasse del capitalismo. Se quelle ricette imponevano di tradurre le leggi dello Stato in leggi del mercato, e dunque di polverizzare il potere economico al fine di impedire concentrazioni di ostacolo alla concorrenza, la reazione antifascista indica la strada opposta: consentire la formazione di contropoteri economici capaci di contrastare il potere economico[4].
Insomma, il principio di uguaglianza sostanziale concerne la redistribuzione delle armi del conflitto sociale attraverso il rafforzamento dei soggetti socialmente deboli. È questo il motivo per cui lo si può ritenere a buon titolo sovversivo, il che venne non a caso approfondito nel corso degli anni Settanta: quando si realizzò il cosiddetto disgelo costituzionale, ovvero si iniziò a realizzare il disegno abbozzato dalla Carta fondamentale. E quando proprio l’attuazione del principio di uguaglianza venne ritenuta un possibile passo verso “l’avvento di un sistema socialista” senza ricorrere a una rottura rivoluzionaria, ovvero “nella continuità costituzionale e nella legalità”[5].
Capitalismo e democrazia
Quanto abbiamo visto essere l’essenza del fascismo, ovvero il suo aver assicurato la riforma delle libertà economiche e la soppressione di quelle politiche indispensabili a rendere il capitalismo storicamente possibile, viene sintetizzato in una affermazione perentoria di Canfora: quella secondo cui “quanto alla relazione con la democrazia, il capitalismo è la sua negazione” o “se c’è una antitesi quindi è proprio tra capitalismo e democrazia” (22).
La sintesi esprime una verità incontestabile, e non tanto perché il capitalismo è intrinsecamente antidemocratico: è semplicemente indifferente alle sorti della democrazia, il che forse è peggio perché corrisponde a un atteggiamento più subdolo. È però l’atteggiamento in linea con l’ortodossia neoliberale, secondo cui il punto di riferimento per l’azione dei pubblici poteri è il corretto funzionamento del mercato, per il quale ben si può accettare di sacrificare la democrazia nella misura necessaria e sufficiente a perseguire l’obbiettivo.
In tutto questo occorre però mettere meglio a fuoco il ruolo dello Stato, o più precisamente vagliare con attenzione le trasformazioni che esso ha subito con il passare del tempo. Nessuno dubita che queste si siano verificate e che anzi abbiano avuto un peso non indifferente: lo Stato ai tempi dei Trenta gloriosi non è certo lo Stato la cui agenda è stata riscritta per allinearlo ai dettami del neoliberalismo a partire dagli anni Ottanta. Detto questo, sebbene la storia conosca rotture oltre alle continuità, è bene evitare le ricostruzioni che enfatizzano le prime e occultano le seconde, le quali del resto sono molto meno frequenti di quanto sovente si riconosca o si voglia riconoscere.
Canfora descrive una parabola che mette in luce rotture e continuità nella relazione tra lo Stato e il capitalismo. Osserva che per molto tempo questa è stata equilibrata, in quanto ha visto lo Stato nel ruolo “super partes” di “garante” del capitalismo, ma anche del suo “controllore”: “copre e protegge la proprietà in tutti i modi, ma al contempo apre uno spiraglio perché essa venga eventualmente messa in discussione”. Recentemente le cose sarebbero mutate radicalmente, dal momento che “lo Stato nazionale e il suo ordinamento sono stati messi nell’angolo perché ormai tutto funziona al di sopra delle organizzazioni statali” (23 s.).
Più sfumata la riflessione di Di Siena, il quale sottolinea il ruolo dello Stato nel rendere possibile il capitalismo: “senza l’architettura giuridica statuale che tutela la proprietà e l’impresa privata, i contratti, il libero scambio ecc., un’economia di mercato risulterebbe impossibile” (22). A questo possono aggiungersi vicende non certo di dettaglio, come il ricorso alla forza, inclusa quella degli eserciti, per l’approvvigionamento di materie prime e la conquista di mercati indispensabili per lo smaltimento della produzione nazionale: per comprimere il potere del lavoro si è affossato il compromesso keynesiano e dunque depresso il consumo interno.
Più in generale occorre non sottovaluterei il ruolo dei pubblici poteri, magari più nascosto ma non certo meno pervasivo anche quando si tratta di attuare le quattro libertà su cui si fonda il modello neoliberale: di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Il tutto in linea con la rottura che ha in effetti caratterizzato la relazione tra capitalismo e Stato nazionale: l’edificazione del secondo come strumento del primo, ovvero come strumento al servizio di una logica di sistema piuttosto che di “singoli capitalisti o di singoli ceti capitalistici”[6].
Stato nazionale e Unione europea
La rottura cui abbiamo appena fatto riferimento descrive al meglio il definitivo consolidamento del neoliberalismo come punto di riferimento per l’azione degli Stati nazionali, che proprio in quanto attiene alla volontà di rendere il capitalismo storicamente possibile si è voluto per un verso rafforzare, e per un altro limitare nel suo raggio di azione: deve sostenere il funzionamento di un ordine economico incentrato sul libero incontro di domanda e offerta e dunque neutralizzare qualsiasi azione di segno opposto. Il tutto a corredo della massima neoliberale per cui l’inclusione sociale è ridotta a inclusione nel mercato, motivo per cui l’emancipazione a cui si deve mirare non è quella del cittadino, bensì quella del consumatore. Così come la redistribuzione delle risorse da sostenere non è quella realizzata dai pubblici poteri, bensì quella ottenuta attraverso l’incontrastato funzionamento della concorrenza.
Altrimenti detto, lo Stato neoliberale è uno “Stato forte”, senza il quale non si realizza una “economia sana”[7]. Ma è allo stesso tempo uno Stato nel quale la scelta politica deve rendersi impermeabile all’esito del conflitto sociale, da reprimere in virtù del menzionato principio secondo cui occorre polverizzare il potere economico: primo fra tutti quello dei lavoratori coalizzati, che isolati d fronte al mercato sono condannati a tenere i soli comportamenti descrivibili in termini di reazioni automatiche ai suoi stimoli.
Lo strumento primo per impedire al conflitto sciale di orientare il comportamento dei pubblici poteri è il federalismo, in particolare quello realizzato dall’Unione europea nel solco delle indicazioni fornite da un padre del neoliberalismo alla fine degli anni Trenta. Il riferimento è a Friedrich von Hayek, che affidava alla federazione il compito fondamentale di eliminare ogni ostacolo alla libera circolazione dei fattori produttivi in quanto espediente attraverso cui ottenere la moderazione fiscale degli Stati membri: una pressione fiscale elevata “spingerebbe il capitale e il lavoro da qualche altra parte”. La libera circolazione consentiva insomma di spoliticizzare l’ordine economico, dal momento che sottraeva alle “organizzazioni nazionali, siano esse sindacati, cartelli od organizzazioni professionali”, il “potere di controllare l’offerta di loro servizi e beni”. Di più: se lo Stato nazionale alimentava “solidarietà d’interessi tra tutti i suoi abitanti”, la federazione impediva legami di “simpatia nei confronti del vicino”, tanto che diventavano impraticabili “persino le misure legislative come le limitazioni delle ore di lavoro o il sussidio obbligatorio di disoccupazione”[8].
Se così stanno le cose, si comprende l’enfasi di Canfora sulla dimensione nazionale come “dimensione a misura d’uomo… contestabile e difendibile”, motivo per cui “le lotte sociali” per “ovvie ragioni di affinità di interessi” (207) si “svolgono esclusivamente all’interno degli Stati” (120). Così come si comprende la sottolineatura che “l’interesse nazionale è un valore positivo” nella misura in cui contrasta “l’asservimento ai centri di potere sovranazionale costruiti con l’Ue e le sue strutture di governo” (121). Giacché non si tratta di una invocazione frutto di nazionalismo, bensì di una reazione a un sentimento uguale e contrario: il sovranazionalismo per cui la dimensione europea deve essere preferita a prescindere[9]. Come se non fosse importante prima stabilire quali sono i valori per cui vale la pena combattere, e poi stabilire qual è la dimensione territoriale capace di meglio avvicinarci all’obbiettivo.
Purtroppo, però, la cosiddetta sinistra non è al momento attrezzata a recepire queste semplici constatazioni. È prigioniera di quanto Canfora stigmatizza come “ipersensibilità del politicamente corretto… verso il concetto di interesse nazionale” (121). Prigioniera di un atteggiamento fondamentalmente antipopolare, dal momento che opera le sue scelte in funzione di un “immaginario popolo europeo” in ultima analisi coincidente con un insieme di “élite non elettive” (206) coalizzatesi per escludere la “partecipazione popolare attiva” (217). Il tutto secondo schemi costruiti in modo raffazzonato per rimpiazzare il sistema dei punti di riferimento precedenti la caduta del blocco sovietico[10].
La cosa però non stupisce, dal momento che la deriva della cosiddetta sinistra comprende ben altre manifestazioni virulente messe in luce da Canfora, tutte in ultima analisi riconducibili alla incapacità di riconoscere la drammatica e sovversiva “incompatibilità tra il dettato della Costituzione italiana” e “l’insieme dei Trattati europei” (32). È del resto una sinistra incastrata in pericolose illusioni, come quella operaista del “non lavoro” (91), o in alternativa attenta alla sola dimensione dei diritti civili (49). In quest’ultimo caso dimentica del fatto, ampiamente testimoniato da quanto avvenuto nel corso degli anni Settanta, che questi avanzano solo se in combinazione con i diritti sociali: “le conquiste sul terreno dei diritti civili sono tanto più efficaci in rapporto a quanto si è attuato e realizzato sull’altro piano, quello dei diritti sociali” (50).
Ma torniamo all’Europa unita, per la quale è facile individuare il progetto politico a cui è asservita, meno la via di uscita. Ovviamente non vi sono scorciatoie, e tuttavia sembra di poter dire che la soluzione non sia premere per “diluire a allargare”: come proposto da Canfora (122). Se non altro perché proprio in questa direzione spingono i neoliberali, consapevoli come abbiamo detto che in questo modo si edificano corpi politici incapaci di reggersi su meccanismi solidaristici. Detto questo, però, non ci sono ricette da seguire, se non quella che ispira l’intero volume di Canfora: coltivare la complessità di cui vive la politica, o se si preferisce evitare le semplificazioni che possono ucciderla.
* Dizionario politico minimo, a cura di Antonio Di Siena, Fazi Editore, 2024. pp. xvi + 236. I numeri tra parentesi nel testo si riferiscono alle pagine di questo volume.
[1] K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino, 1974, p. 297.
[2] A. Rüstow (1938), in S. Audier, Le Colloque Walter Lippman, Lermont, 2012, p. 469 s.
[3] P. Rosanvallon, Il Politico. Storia di un concetto (2003), Soveria Mannelli, 2005, p. 10.
[4] Citazioni in A. Somma, Principio di uguaglianza e ordine e economico, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 2024, p. 287 ss., liberamente accessibile qui: www.academia.edu/121741995/Principio_di_uguaglianza_e_ordine_economico.
[5] C. Lavagna, Costituzione e socialismo, Bologna, 1977, p. 7 ss.
[6] F. Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalista, 2. ed., Bologna, 1980, p. 8 ss.
[7] C. Schmitt, Starker Staat und gesunde Wirtschaft, in Volk und Reich, 1933, p. 87.
[8] F.A. von Hayek, Le condizioni economiche del federalismo tra Stati (1939), Soveria Mannelli, 2016, p. 54 ss.
[9] A. Somma, Un supermercato non è un’isola. Contro l’apologia del sovranazionalismo, in La Fionda, 2021, p. 199 ss., liberamente accessibile qui: www.academia.edu/44748035/Un_supermercato_non_%C3%A8_unisola_Contro_lapologia_del_sovranazionalismo.
[10] A. Somma, Contro Ventotene, Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, Roma, 2021, in parte liberamente disponibile qui: www.academia.edu/61693510/Contro_Ventotene_cavallo_di_Troia_dellEuropa_neoliberale.