Trump, la crisi dei migranti e la manipolazione intorno al termine “deportazione”
di Michelangelo Severgnini
In questi giorni si fa un gran parlare delle prime disposizioni del presidente Trump circa l’espulsione di quei nuovi immigrati sul suolo statunitense entrati durante il mandato di Biden.
I primi voli sono cominciati lo scorso venerdì e sono stati definiti da fonti della Casa Banca come parte della “più grande operazione di rimpatri” della storia degli Stati Uniti, che dovrebbe riguardare circa 1,3 milioni di immigrati irregolari.
L’espressione delle fonti della Casa Bianca è stata alla lettera "largest deportation operation”.
Da qui in Italia molti, sull’onda dell’emozione forse per l’avvicinarsi del giorno della Memoria, hanno tradotto “la più grande operazione di deportazione”, commettendo quello che considero un errore grossolano, per quanto comune e condiviso.
Il termine "deportazione" in Italiano ha un significato preciso, la cui estensione ai casi in questione è subdolo malcostume introdotto anni orsono da sottili (e finanziati) linguisti dell'arrembaggio pro-migrazionista.
In altre parole si tratta di una manipolazione linguistica. E le manipolazioni non portano mai niente di buono.
Confrontiamo le definizioni in Italiano e in Inglese fornite da prestigiosi dizionari.
La Treccani riporta il significato di "deportazione" in questi termini:
"Pena mediante la quale il condannato viene privato dei diritti civili e politici, allontanato dal luogo del commesso reato e relegato in un'isola o in un territorio lontano dalla madre patria. La deportazione era già prevista dal diritto penale romano”.
Ora il significato del termine inglese "deportation" secondo il Cambridge dictionary:
"The action of forcing someone to leave a country, especially someone who has no legal right to be there or who has broken the law”.
Mentre dunque nell'accezione italiana del termine deportazione significa allontanare per disposizione un cittadino dalla propria terra, nell'accezione inglese questo non è vero necessariamente, anzi di solito "to deport" significa spesso "riportare a casa”.
La differenza di senso è totale.
Decine di testimonianze di migranti-schiavi in Libia da me raccolte nell’Urlo invocano, spesso implorano "to be deported", perché per loro quella è l'unica salvezza plausibile rimasta, per sfuggire alle reti del traffico di esseri umani di cui sono schiavi.
In quel caso, "to be deported", non si traduce in Italiano con "essere deportati" (quelle persone non vengono allontanate dal loro Paese, vi sono ricondotte), ma con "essere rimpatriati”.
Tant'è che in Inglese "to be repatriated" and "tò be deported" diventano spesso sinonimi.
Non sono quisquilie per linguisti.
Perché poi alla gente salta in mente di paragonare i rimpatri di migranti (spesso richiesti dagli stessi) alle deportazioni naziste.
E questa è una manipolazione.
Una manipolazione che tende a mostrare la migrazione come un fenomeno naturale e positivo contrastato dall'avidità occidentale.
Quando è piuttosto vero il contrario. E’ l’avidità occidentale che ha concepito e sdoganato la sub-classe dei migranti e l’ha prodotta e incoraggiata.
Uscirà a breve, pubblicata da LAD edizioni, la versione italiana del romanzo autobiografico di Hervé N’dri, giovane ivoriano ritornato nel suo Paese dopo l’esperienza della “migrazione-schiavitù”. Il libro si intitola “Come Drogba mi ha salvato - migrante divenuto schiavo”.
Per lui e per altre centinaia di migliaia, tornare a casa è stata l’unica salvezza.
Dalle descrizioni in diretta di chi si trova in mezzo al guado, la migrazione è associata più normalmente alla schiavitù.
In altre parole, secondo il significato italiano del termine, la deportazione è quella che subiscono ogni anno migliaia di giovani africani quando cedono alle false promesse dei trafficanti.
Quella sì è deportazione, secondo la lingua italiana, perché quelle persone lasciano la propria terra e in massa sono spostate, con l’inganno, in quei Paesi dove potranno essere ridotte in schiavitù o comunque sotto il ricatto costante delle reti di criminali.
Ora, non è certo la bontà ad animare le mosse del presidente Trump, siamo d'accordo. È un calcolo forse economico, forse demografico, chissà elettorale.
Ma in Italiano non chiamiamole deportazioni. Sono rimpatri. E c'è una bella differenza.
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IN USCITA A FEBBRAIO