La dura realtà per i lavoratori italiani
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di Michele Blanco
Non dati di propaganda ma secondo l'Istat i salari, in Italia, oggi sono l'8,8% più bassi rispetto al 2021. È un dato che purtroppo mette chiaramente in evidenza meglio di mille parole la condizione materiale, sempre in peggioramento, di milioni di lavoratrici e lavoratori e delle loro famiglie.
Non si tratta soltanto dell'effetto dell’inflazione che in questi anni ha eroso enormemente il potere d’acquisto. Il punto fondamentale e indiscutibile è che il salario è diventato terreno di ricatto e di sfruttamento continuo all'interno di un sistema economico, politico e sociale che da decenni ha smesso di fare minimamente gli interessi di chi produce e lavora. In questi mesi più di 5 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti sono in attesa del rinnovo del contratto di lavoro e in fervida attesa di aumenti salariali decenti. Molti di questi contratti sono scaduti da mesi o, addirittura, da anni, bloccati dalle organizzazioni dei datori di lavoro, e spesso, quando si giunge ad un rinnovo gli aumenti sono a dir poco ridicoli al punto da pareggiare, quando va bene, l'aumento continuo del costo della vita.
È così che in Italia le retribuzioni, stipendi e salari, sono da moltissimi anni inferiori del 20% rispetto alla media dell’Unione Europea.
In Francia e Germania gli aumenti contrattuali del solo anno 2024, ad esempio, si sono attestati tra il 6 e il 7%, mentre in Italia la gran parte dei salari è assolutamente ferma mentre affitti, bollette, i prezzi dei beni essenziali continuano ad aumentare in modo completamente insostenibile, per la maggior parte delle famiglie italiane.
Una situazione gravissima che non è semplicemente frutto dell’inflazione ma di scelte politiche, fatte in continuità da governi di centrodestra, di centrosinistra e tecnici senza nessuna distinzione, ben precise. Si tratta dell'estrema conseguenza di decenni ininterrotti di compressione salariale, di mancata contrattazione collettiva, di un modello economico che pretende aumenti continui e costanti di produttività senza una redistribuzione adeguata e aumenti di flessibilità senza diritti.
Oggi parlare di salario minimo, di contrattazione collettiva, di sfruttamento è questione, non rimandabile, diventa una questione vera e propria giustizia sociale. Bisogna pretendere il rinnovo immediato dei contratti scaduti, con aumenti salalariali veri che recuperino oltre l’inflazione e riconoscano i sacrifici fatti da decenni dai lavoratori. È assolutamente necessario un salario minimo di almeno 10€ l'ora che impedisca di vivere sotto la soglia di povertà, come capita a milioni di lavoratrici e lavoratori italiani, anche lavorando a tempo pieno. In Germania è stato approvato l'aumento del salario minimo a 14,6 euro l'ora per il 2027. Si tratterebbe solo di dare dignità a chi lavora, oggi ci troviamo di fronte a file sempre più lunghe alle mense Caritas, in tutta Italia con i nuovi poveri, che anche se lavorano e hanno lo stipendio, ma per tantissimi non basta più.
Non si può accettare che in uno dei Paesi più importanti dell’UE, con quasi 59 milioni d'abitanti, il lavoro sia diventato solo sinonimo di precarietà, sfruttamento, con salari da fame e diritti sempre più calpestati. L’Italia è l'unico Paese dell'Unione Europea in cui i salari reali sono scesi negli ultimi trent’anni, mentre produttività e profitti sono enormemente e costantemente aumentati. Le imprese hanno potuto scaricare i costi della crisi, presunti o veri, e dell’inflazione sempre sui lavoratori, contando continuamente sulle politiche dei governi, ripeto sia di centro destra che di centro sinistra o tecnici, che hanno dispensato continui bonus e tagli fiscali a pioggia. Per questo bisogna tornare a parlare di lavoro e condizioni salariali. Bisogna cambiare la situazione e i rapporti di potere, di chi decide come si distribuisce la ricchezza, tantissima ricchezza, che il sistema economico italiano ogni giorno produce. E significa provare a capire finalmente che la povertà non è un destino, non una colpa ma il risultato di rapporti di forza economici e politici costruiti negli ultimi decenni a continuo discapito di chi lavora e aumenta la produttività in questo Paese.
Chiedere che questo stato di fatto ingiusto finisca è il compito di chi si autodefisce progressista o di sinistra. Diventa necessario far capire all'intera opinione pubblica italiana che chiedere giustizia salariale non significa chiedere l’elemosina, ma pretendere ciò che giustamente spetta ai lavoratori. Tra queste cose spetta il rinnovo immediato dei contratti alla loroscadenza, aumenti salariali reali e decenti, un salario minimo che impedisca la povertà lavorativa oggi assolutamente diffusa e una politica che rimetta il lavoro, vero e produttivo, e i lavoratori con la loro dignità al centro. Nessuno è condannato a vivere in una società che continua a premiare solo i profitti, in particolare i profitti finanziari, e a sacrificare la forza lavoro che quei profitti li rende possibili. Senza giustizia salariale non c’è dignità, non c’è nessun tipo d' uguaglianza, nemmeno formale, e non c’è e non ci sarà un futuro. Senza una vera e diffusa solidarietà, dignità, non ci possono essere diritti, sociali, sanitari e neache la vera libertà.
Lo stesso padre del liberalismo Adam Smith lo sapeva, per questo ha scritto che: «Nessuna società può essere fiorente e felice se la maggior parte dei suoi membri è povera e miserabile», (in A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Milano, Mondadori, 2009, terza edizione, libro I, cap. 8, p. 169). Perché mai, al giorno d’oggi, noi tutti dovremmo fare finta di non saperlo? La posta in gioco è molto alta e le difficoltà sembrano indissolubili ma molto alti sarebbero i benefici per la sicurezza e lo sviluppo dell’umanità che si otterrebbero attraverso la realizzazione di un minimo di giustizia sociale.

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