Francesco Erspamer - La politica della durata. Per una modernità machiavelliana
Di seguito l'intervento del Prof. Francesco Erspamer alla prima conferenza della INTERNATIONAL MACHIAVELLI SOCIETY, svoltasi a Roma dal 13 e al 16 dicembre 2023
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di Francesco Erspamer
La politica della durata. Per una modernità machiavelliana
A parte il Principe, il primo libro di Machiavelli che ho letto sono state le lettere; è che la loro edizione (nella Universale Economica Feltrinelli) l’aveva curata un mio professore della Sapienza, e poi correlatore della mia tesi di laurea, Franco Gaeta.
Ne ricordo ancora una insignificante, l’ultima, scritta il 22 giugno 1527 non da Niccolò ma dal figlio Piero per annunciare a un parente la morte del padre il giorno prima. Un breve messaggio che a fine anni sessanta fu oggetto di un’animata polemica a causa della presenza di un riferimento a un presunto pentimento in punto di morte di Machiavelli: «Lasciossi confessare le sue peccata da frate Matteo, che gl’ha tenuto compagnia fino a morte».
Che invece a me è sempre parso, fin dalla prima, inesperta lettura di quasi mezzo secolo fa, ancor più che un esempio della «religiosità profonda» che Lucien Febvre attribuì al cinquecento ritrovandola in Rabelais come in Cartesio, un comportamento autenticamente machiavelliano, con quel «lasciarsi confessare» in cambio di un po’ di «compagnia»; non una galileiana (e quella sì machiavellica) «medicina del fine» (in questo caso propriamente “della fine”) bensì una coerente conferma del metodo di Machiavelli, in politica come nella vita, di affrontare le crisi ed evitare o ritardare la catastrofe non attraverso una nichilistica fuga in avanti verso l’ignoto (quello che Roberto Esposito definì «nichilismo prospettico») bensì, al contrario, rifacendosi alle origini, ai «principii». Come esplicitamente indicato all’inizio del libro III dei Discorsi: «Il modo di rinnovare è ridurre verso e’ principii suoi; perché tutti e’ principii delle republiche e dei regni conviene che abbiano in sé qualche bontà».
Innovare significa ritrovare l’origine. (Il che non significa desiderare che tutto resti com’è, come invece auspica Tancredi nel Gattopardo: frase che Carlo Ginzburg in Nondimanco riconduce a Machiavelli, mi pare fraintendendo entrambi). Perché le origini furono processi di ordinamento del caos primigenio, istituzione di ordine e in quanto tali «conviene che abbiano in sé qualche bontà». Niente a che vedere con un’origine naturale, ossia estranea all’agire umano, come per Rousseau, che lesse Machiavelli in quella chiave. Invece per Machiavelli, come per Vico e, direi, come per tutta la linea del «pensiero vivente» italiano, l’origine è sempre e solo storica. Un factum, ossia un participio passato, definitivo, in nessun modo naturale perché la natura, per continuare con Vico, è intrinsecamente vera, dunque sempre presente. Come l’oggetto dell’osservazione e del pensiero scientifici. Il giovane Leopardi lesse Machiavelli come se fosse stato un pre-illuminista, un moderno alla Montesquieu e alla Rousseau: «Dice Machiavelli che a voler conservare un regno, una repubblica o una setta, è necessario ritirarli spesso verso i loro principii. Così tutti i politici. […] Ed io dico nello stesso senso: a voler conservare gli uomini, cioè farli felici, bisogna richiamarli ai loro principii, vale a dire alla natura». La natura come principio è il mito fondativo della modernità «vincente» e la giustificazione del suo appiattimento sul presente. Ma Leopardi seppe superare tale posizione; non posso occuparmene ora (ed è il tema di una specifica relazione di Gianluigi Sadun Bordoni, domani pomeriggio) però il testo da guardare è la Ginestra:
e quell’orror che primo
contro l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade… (147-53)
Qui l’inizio («primo») è un atto di resistenza contro la natura, un atto politico, di aggregazione sociale («in social catena») e civile (il sapere, la giustizia, la pietà ma soprattutto il «conversar cittadino»).
È questa, per Machiavelli, la «bontà» delle origini; storica ma recuperabile, sia per la sua «riputazione» che come «argumento». La morale di Machiavelli non è astratta, assoluta: affermarla tale sarebbe stata, per lui, una menzogna fondata sull’assolutizzazione del presente. Machiavelli sapeva che esisteva un tempo per la fondazione dei valori e un tempo per il mantenimento di quei valori e per il loro rinnovamento ma senza la pretesa di poterli cancellare per restituire al mondo un’innocenza e ignoranza ormai perdute. Come Hobbes e i classici della modernità ufficiale, quella vincente, Machiavelli accetta l’irreversibilità della Storia: non però come continua sostituzione bensì come continua accumulazione. Anche le inevitabili crisi non sono «singolarità»; se lo fossero non avrebbe alcun senso parlarne perché niente di ciò che diciamo, pensiamo, facciamo esisterebbe più e non sarebbe mai esistito in quanto non ne resterebbe alcuna traccia, alcun effetto.
Non c’è neppure una ciclicità: il fondamentale e fondativo passaggio dalla preistoria alla storia, dall’incoscienza alla coscienza, dal caos all’ordine, è irreversibile ed è già avvenuto, per sempre. Für ewig, nel senso gramsciano di una resistenza (al nuovo fine a sé stesso, inclusa la nuova situazione politica fiorentina) che si intreccia al progetto (di soluzioni innovative basate sui valori delle origini) proprio nell’atto della scrittura, in una tensione costruttiva.
Ovvio che Machiavelli si lasciasse confessare in punto di morte. La crisi personale più difficile era superabile solo ritualmente, compensando il trauma della prossima perdita del sé con il senso di appartenenza a una collettività.
Così aveva fatto quattordici anni prima: alla sconfitta politica, all’esilio, al conseguente pessimismo dell’intelligenza, aveva opposto l’ottimismo della volontà e della partecipazione: di giorno la comunità sincronica dell’osteria e di sera quella diacronica «delli antiqui uomini», in entrambi i casi «ricevutovi amorevolmente», nella taverna e nelle antiche corti. È la celebre lettera a Vettori del 10 dicembre 1513, sulla quale non mi soffermerò ma che è una chiave per comprendere il suo Spätstil, stile «tardo», ossia di chi ha molta esperienza, ma anche «in ritardo», di chi (come il Beethoven di Adorno) è al di là del bisogno di compiacere i suoi contemporanei.
In quella lettera Machiavelli rivendicò la priorità da lui stesso assegnata ai propri princìpi rispetto al proprio utile: «chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia».
Ogni frase di Machiavelli merita un’esegesi puntuale e ispira connessioni e riflessioni; in questo caso varrebbe la pena mettere in evidenza quel «non poter mutare natura»: la consapevolezza dei limiti imposti all’agire umano dalla natura è centrale in Machiavelli. Soprattutto perché lo esenta, contrariamente a quanto spesso si suppone, dall’obbligo di ragionare politicamente sulla realtà effettuale: ci tornerò fra un momento. Ora mi interessa soffermarmi sulla menzione della propria povertà, confermata nella breve lettera del figlio Piero da una frase struggente: «Il padre nostro ci ha lasciato in somma povertà, come sapete».
La frase mi è tornata in mente un mese fa, mentre cercavo di informarmi sulla KKR, una delle più opulente banche speculative americane, che aveva appena acquistato la rete fissa della TIM. Ho scoperto allora che nel mega ufficio newyorkese di uno dei fondatori, tale Henry Kravis, c’è incorniciata la traduzione inglese di una citazione dal capitolo vi del Principe: «L’introduttore (impropriamente reso con «innovator») ha per nimici tutti coloro che degli ordini vecchi (impropriamente reso con «old system») fanno bene; e tepidi difensori tutti quelli che degli ordini nuovi (impropriamente reso con «new system») farebbono bene». A suggerire un’affinità fra il segretario fiorentino, benché in disgrazia, e il vincente speculatore americano: in quanto entrambi apostoli del nuovo.
Ma come?, mi indignai, un miliardario che pone il profitto privato come suo unico obiettivo, che si appropria del pensiero di un intellettuale che aveva sacrificato il profitto alla fedeltà ai propri fini? Ma quasi sùbito mi accorsi che ben più grave era il modo in cui Kravis e i tanti altri finanzieri e imprenditori che hanno citato quella frase del Principe (guardate su Google), avevano frainteso se non intenzionalmente travisato il concetto machiavelliano di innovazione.
Ero ancora incerto, in quel momento, se davvero intervenire a questo convegno, visto che la mia lunga fedeltà a Machiavelli, che infiltro in ogni mio corso o intervento in rete, non si è tradotta in libri o saggi specifici, per cui in nessun modo posso essere considerato, accademicamente, un esperto. Ma l’appropriazione di Machiavelli da parte di Kravis mi ha convinto. Da tempo al centro delle mie riflessioni intellettuali c’è la ridefinizione delle discipline umanistiche, sotto pesante attacco negli Stati Uniti, a cominciare da Harvard, e penso ovunque. E allora non potevo rinunciare all’opportunità di argomentare che il problema principale, che investe direttamente le definizioni di cultura e comunità, il ruolo dello Stato e delle istituzioni da un lato e dei media e tecnologie dall’altro, lo scopo dell’educazione, il rapporto fra individuo e società, dicevo, il problema principale a cui far risalire le tensioni e contraddizioni del nostro tempo sia quello del nuovo, concetto cardine della modernità e fondamento, non della scienza ma dell’ideologia scientifica e pseudo-scientifica, oggi egemonica ma che già secoli fa portò indipendentemente Galileo, Bacone e Cartesio a porre la cancellazione del passato come condizione della libertà e della verità.
Sulla prima pagina dell’ultimo New York Times che ho letto prima di venire in Italia, pochi giorni fa, c’era un articolo dal titolo significativo: «Gli Stati stanno perdendo la gara per controllare i pericoli dell’intelligenza artificiale». Una questione strettamente politica e umanistica e come tale analizzata, ho appena visto, sull’ultimo numero di Limes Ma molto più spesso prevale la rassegnazione per un destino accettato come manifesto, e da lì, per non sentirsi isolati e antiquati, l’adattamento, per cui la pericolosità si trasforma in un male minore e la soluzione è un’ulteriore accelerazione del processo che si sarebbe voluto fermare. Come riuscire, si chiedono gli autori dell’articolo del New York Times, a contrastare tecnologicamente una tecnologia in perenne evoluzione?
Dello stesso tenore sono le frequenti discussioni, a Harvard e in molte università americane, sui danni accademici della ChatGPT. Come mai? Perché non ci sono categorie concettuali in grado, non dico di regolare ma neppure di comprendere le implicazioni di un sistema eretto sulle novità fine a sé stessa.
Vecchio problema: la modernità sa descrivere e forse pensare la realtà, al punto da riuscire a rendere reale il virtuale, ma non sa descrivere e certamente non sa pensare sé stessa. Contrariamente a ciò che affermò Habermas, non c’è stata nessuna autoaffermazione della modernità, solo una euforica o rassegnata immersione nel flusso di ciò che chiamiamo progresso, «crescita», consumo, e anche necessità storica, legge economica, mercato. Nessuna assunzione di responsabilità, in effetti nessuna scelta, nessuna presa di coscienza; a meno che non si chiami coscienza, come si tende a fare, l’affermazione ed espressione della propria individualità.
È ciò che un secolo fa Pirandello, osservatore angosciato e dunque passivo della modernità, pose al centro della sua opera, e che provò a spiegare nel saggio sull’umorismo: le uniche alternative sono lasciarsi vivere, come un albero, o sentirsi vivere, ossia pagare il senso del sé con l’infelicità.
Sto per tornare a Machiavelli. Ma prima, a spiegare perché a me sembri il pensatore originario (cosa ben diversa da «originale») a cui dovremmo rivolgerci per uscire dalla paralizzante alternativa pirandelliana, devo fare un’altra premessa. Costretta per definizione a rincorrere il nuovo, la modernità ha istituito uno stato di eccezione permanente, e questo già prima che l’economia capitalista del consumo e della finanza riuscisse ad aprire un baratro fra le esperienze precedenti (altrui e magari remote o anche proprie e recentissime) e le aspettative; la principale delle quali, cardine e dogma della modernità liberista, (sto citando Reinhardt Koselleck, grande studioso della temporalità) è di un futuro inevitabilmente «diverso dal passato e migliore».
Poco importa che quei futuri non li si conosca: se si riesce a imporne l’aspettativa è probabile che si autoavverino.
Cos’altro è la superiorità attribuita da Galileo alla mera osservazione del presente (una frase chiave della prima giornata del Dialogo: «mille Demosteni e mille Aristoteli resterebbero a piede contro ad ogni mediocre ingegno che abbia avuto ventura di apprendersi al vero»)? cos’altro è la tabula rasa prescritta da Cartesio per cominciare a pensare e a pensarsi? cosa l’«andare oltre» di Bacone per far crescere la conoscenza (parlo del frontespizio del Novum organum, forse il primo esempio dello spostamento di un’antica metafora, quella della «crescita», da una temporalità limitata che portava dall’infantia e dalla pueritia alla stabilità della maturitas e alla decadenza della senectus, a una temporalità assoluta che fa del progresso un’espansione illimitata, ignorando i limiti delle risorse e dello spazio a disposizione)?
L’innovazione moderna è emergenza, nel doppio significato di qualcosa che emerge e che lo fa in maniera imprevista, sospendendo e poi cancellando un passato, sempre più prossimo, percepito come anacronistico e dunque inutile.
Ma una caratteristica dell’emergenza è che non ha tempo per pensare (faccio riferimento al libro di una collega di Harvard, Elaine Scarry, Thinking in an Emergency), il che non la esenta solo dalla pazienza del dubbio e dall’umiltà delle verifiche: anche dalla preparazione per future emergenze. C’è insomma un’enorme differenza fra uno stato di eccezione proclamato nel momento dell’eccezione e una regolamentazione anticipata dell’eccezione, come i ripari e gli argini costruiti «quando sono tempi quieti».
Ecco, a me pare che Machiavelli possa esserci d’aiuto; benché si occupi proprio del nuovo, non lo identifica con i risultati; lo identifica con le intenzioni e con i valori di riferimento, dunque con la competenza acquisita grazie all’esperienza, storica e personale. Come nel caso dei fini, quelli che giustificano i mezzi, e che non sono i risultati bensì gli obiettivi.
Straordinariamente rilevante il capitolo ix del I libro dei Discorsi: «Molti giudicheranno di cattivo esempio che uno fondatore d’un vivere civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi consentito alla morte di Tizio Taio Sabino, eletto da lui compagno nel regno. […] La quale opinione sarebbe vera, quando non si considerasse che fine lo avesse indotto a fare tale omicidio».
Innanzi tutto si noti che l’unico scopo politico della scrittura (quasi volesse rispondere alle accuse di Socrate contro la scrittura, nel Fedro, o alla autogiustificazione di Cicerone all’inizio del De officiis, di essersi dedicato allo scrivere perché costretto a disertare l’attività pratica) è per Machiavelli fornire insegnamenti e modelli: «molti giudicheranno di cattivo esempio che…». Il suo è un discorso proiettato verso il futuro, in cui dunque la ricostruzione storica e la precisione filologica hanno come scopo l’educazione e la preparazione: non si tratta di giudicare il passato, cosa del tutto irrilevante, ma di giudicare il modo in cui potrebbe attualizzarsi in una contingenza diversa, il presente, che ovviamente non può conoscere i risultati delle sue azioni e non ne può ancora essere ritenuto responsabile. Machiavelli insegna a non confondere una scelta politica con una causalità. Quando sùbito dopo scrive che Romolo andrebbe condannato «quando non si considerasse che fine lo avesse indotto a fare tale omicidio», non sta parlando della gloria di Roma, effetto storico di quel fratricidio. Non si può essere indotti da un risultato a venire: «fine» qui significa propositi, ideali. Significa telos.
Che fosse perfettamente cosciente del doppio significato del concetto lo dimostra il lungo paragrafo seguente. Inizialmente appare il fine come risultato: «Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi». Qui non sta parlando più dell’intenzione bensì dei suoi risultati concreti, ossia la fondazione di Roma e ciò che ne conseguì. Ma poco dopo torna agli ideali, ai valori: «che quello che fece fusse per il bene comune e non per ambizione propria, lo dimostra…». Insomma, per Machiavelli non c’è differenza, da un punto di vista morale, fra i due momenti, in quanto solo un buon proposito può generare un buon risultato. Il fine, in altre parole, è inizialmente in potenza e poi in atto e ciò che conta di più è di che fine si tratti. Come l’intelletto secondo Aristotele, ben presente a Machiavelli. La discrepanza può esistere solo a livello di mezzi. Situati fra una finalità lodevole e la sua attuazione altrettanto lodevole, i mezzi possono essere immorali; ma il fatto di non essere dei fini li rende temporanei, contingenti, accidentali, dunque non giudicabili per sé stessi.
In sostanza, è tutta una questione di tempo: quando si situa, cronologicamente, la massima machiavelliana? Se la poniamo nel tempo del fine, del risultato (o se si vuole del successo, una delle parole chiave del liberismo), ossia del presente, allora la critica sarebbe corretta: non tutto ciò che si sia fatto per arrivare all’attuale situazione può venire giustificato moralmente in nome della nostra convenienza attuale. Il che invece accade continuamente e ordinariamente: la Storia del passato la scrivono i vincitori di oggi; anche quando sembra che ci sia una condanna dei mezzi del passato, come per la cultura della cancellazione, in realtà si tratta di mezzi ritenuti legittimi da precedenti attualità, ossia da un passato più prossimo ma anch’esso trascorso, mentre il presente esige quella condanna per legittimare i propri mezzi. Machiavelli invece sta parlando di politica e di morale applicata alla politica, ossia a livello di decisioni, di scelte, di azione: il suo fine è futuro. Il Principe e i Discorsi non servono a celebrare le azioni già compiute o i personaggi che le compirono, irripetibili in un processo storico che continuamente modifica le situazioni e che resta pesantemente condizionato dalla fortuna (vedi i casi di Giulio II, cap. xxv, e quello di Cesare Borgia, cap. vii).
Lo studio del passato è un addestramento, una preparazione, una educazione alla virtù, dunque alla formulazione di fini virtuosi. Machiavelli intende: il fine (futuro e virtuoso) giustificherà i mezzi (presenti e finché tali non giudicabili). Intende: il fine (presente, ossia ciò che consideriamo un legittimo fine, ossia un valore difendibile e condiviso) giustifica (adesso) i mezzi (presenti e futuri). Si veda la fine del capitolo xiv: «Quanto allo esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie e in quelle considerare le azioni degli uomini eccellenti […]; e sopra tutto fare come ha fatto per l’adrieto qualche uomo eccellente, che ha preso ad imitare se alcuno innanzi a lui è stato laudato e gloriato, e di quello ha tenuto sempre e’ gesti e azioni appresso di sé. […] Questi simili modi debbe osservare uno principe savio e mai ne’ tempi pacifici stare ozioso, ma con industria farne capitale, per potersene valere nelle avversità, acciò che, quando si muta la fortuna, lo truovi parato a resisterle».
Farsi trovare parati a resistere alla fortuna: questo il nocciolo del pensiero politico machiavelliano. Tenerlo presente consente di non fraintendere una citatissima frase del capitolo seguente, quella sull’opportunità di guardare alla «verità effettuale della cosa» piuttosto che all’«immaginazione di essa». Per Machiavelli le «cose» non hanno bisogno di alcuna teorizzazione; esistono e avvengono comunque e pertanto sono indifferenti alla politica, che non se ne deve o può occupare, mentre può e deve occuparsi del possibile, del «dover essere». Chiarisce infatti sùbito dopo: «È necessario a uno principe imparare a potere essere non buono, e usarlo e non usare secondo la necessità». Come è stato possibile che lettori e studiosi abbiano frainteso un messaggio così chiaro? Si tratta di prepararsi ad affrontare le necessità contingenti, quali che siano; perché c’è una differenza sostanziale fra imparare a «potere essere non buono» e usare o non usare questa capacità.
Torniamo al nuovo. Koselleck cita un brano dei Discorsi per mostrare un approccio basato sulla prognosi piuttosto che sulla profezia: il che lo renderebbe moderno; se non fosse che la sua prognosi è ricavata dall’esperienza del passato, non da un artificiale orizzonte di aspettativa. La modernità di Machiavelli risultò perdente nel cinquecento ma potrebbe risorgere oggi, prima che sia troppo tardi per salvare la civiltà e forse il genere umano: una modernità che non si autolegittimi con l’intrinseca e perpetua eccezionalità del presente bensì attraverso le garanzie offerte dalla continuità, dalla durata: perché se è durato, per Machiavelli è ragionevole supporre che ci fosse del buono nei suoi ordinamenti (lo ripete spesso, in particolare nel blocco di capitoli sulla religione dei Discorsi); e poi perché, come scrisse il 20 dicembre del 1514 a Vettori, «tutte le cose che sono state io credo che possano essere», idea confermata da Nietzsche (non so quanto machiavellico ma anche lui esploratore di una modernità altra) nella seconda considerazione inattuale, quella Sull’utilità e il danno della storia per la vita, e precisamente nella parte dedicata alla storia monumentale: «Quale giovamento dà all’uomo attuale la considerazione monumentale del passato, l’occuparsi di ciò che è classico e raro dei tempi passati? Egli viene a sapere che ciò che è grande e che una volta esisteva è stato in ogni modo una volta possibile e perciò sarà possibile ancora una volta».
Persino la dittatura, che Machiavelli ammirava nell’ordinamento romano come risposta a situazioni davvero eccezionali e non gestibili altrimenti (rimando a un’appendice del Machiavelli in tumulto di Gabriele Pedullà), era un rimedio istituzionalizzato, parte di un ordine e inteso a preservarlo. La modernità di Galileo, che è la nostra, è una modernità fondata sull’eccezione; la modernità di Machiavelli (che fosse una modernità è evidente, lo ripeto, per la sua piena consapevolezza che tutto cambia e che per sopravvivere occorre adattarsi) era fondata sull’ordine.
È per questo paradossale che Machiavelli sia stato spesso considerato un politico o un filosofo dell’emergenza. Solo perché riconosceva, appunto, che ci sono situazioni in cui il graduale rinnovamento richiesto dall’inarrestabile e caotico mutare delle contingenze, e persino il ritorno alle buone leggi e ai buoni costumi delle origini, si rivelano insufficienti: e allora non resta che «venire allo straordinario». Ma tale stato di eccezione comporta nel tempo, che è ciò che a Machiavelli importava, rischi altissimi di catastrofe: «Perché ancora che il modo straordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esemplo fa male».
È un punto decisivo, espresso con chiarezza poche righe prima, sempre nel capitolo xxxiv dei Discorsi. Scrive Machiavelli che «gli ordini consueti nelle repubbliche», in particolare quelle «miste», in cui il conflitto fra diversi poteri sia stato istituzionalizzato e generi un equilibrio, hanno «il moto tardo»; lo stato di eccezione è per loro fatale proprio perché «non aspetta tempo».
Esattamente il contrario di ciò che affermava il «Machiavelli d’America» se non «del XX secolo», come due settimane fa la stampa italiana ha unanimemente definito Henry Kissinger, dal Sole 24 Ore a Tutto Sport, da Rai News all’ANSA, dalla Gazzetta del Mezzogiorno alla Gazzetta di Parma. La sua più citata frase «machiavellica» è la seguente: «Ci sono situazioni in cui più la sopravvivenza è minacciata, più il margine di scelta si restringe, a meno che non si dica che si preferisce che la società venga distrutta piuttosto che perseguire mezzi marginali».
Mezzi marginali: un aggettivo arrogantemente trasparente: da un lato la scusa dell’apocalisse, presunta se non immaginaria, dall’altro reazioni concrete e che però sono, nel confronto con la distruzione della società, accettabili. Marginali. Ma non posso analizzare Kissinger come se fosse Machiavelli. Noterei soltanto che gli basta la percezione di una minaccia per restringere «il margine di scelta», ossia auto-precludersi preventivamente l’analisi e il giudizio. Per Kissinger lo stato di eccezione precede l’eccezione e in buona misura la determina, ne fa una profezia che si auto-avvera.
È peraltro il modus operandi del neoliberismo. Il nuovo, come ho già detto, ne è la condizione necessaria: basti pensare alla trasformazione delle notizie in «breaking news»; ai prodotti a obsolescenza programmata, soprattutto tecnologici; alla incomunicabilità culturale fra generazioni ormai brevissime; alla mobilità compulsiva, appunto in cerca del nuovo.
E anche al proliferare delle utopie, sempre più simili ai non-luoghi di Augé e che, come quelli, prima ancora del senso di appartenenza, ossia della Storia, eliminano la politica. Parlo dei tanti movimenti che promuovono cancellazioni e sradicamenti, così difficili per me da distinguere dalla deregolamentazione neoliberista; e che sembrano presupporre la possibilità di rifondare la civiltà umana; dunque di fondare città nuove, nuove Atlantidi, nuove culture senza origini.
Machiavelli rifiuta questa possibilità, consapevole che tutte le città sono già state fondate e che non ci possono più essere eroi. Modernità, per lui, è fare i conti con un mondo invecchiato, che ha perso ingenuità e innocenza e non può recuperarle. La modernità di Machiavelli è una modernità dalle risorse limitate, dagli spazi limitati. Non fa finta di poter continuare a fondare città ma continua a credere nella polis e dunque a fare politica. Allunga il tempo per mancanza di spazio. Torna alle origini della polis invece di cancellarla perché sognare di fondarne altre è un’illusione o un trucco.
Anche il Nuovo Mondo è in questa prospettiva già vecchio. Machiavelli pare poco interessato alle scoperte geografiche ma certamente non ignorava la letteratura odeporica, in particolare il Mondus novus del fiorentino Amerigo Vespucci, pubblicato nel 1504 e ristampato molte volte in molti luoghi quell’anno e nei successivi (incluse Venezia e Roma). Semplicemente, la sua modernità non aveva bisogno di quel tipo di novità.
Basti leggere il proemio dei Discorsi, proprio l’incipit dell’opera: «Ancora che per la invida natura degli uomini sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi che si fusse cercare acque e terre incognite […], nondimanco, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare […] quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita…».
Una frase importante in relazione alla comprensione del bene comune come obiettivo politico («comune benefizio»), dunque per capire, come abbiamo visto, la questione dei mezzi e dei fini. Qui però noterei (non mi pare sia stato fatto) l’analogia fra il principato nuovo e il Nuovo Mondo, quelle «acque e terre incognite» così difficili da navigare e raggiungere. Un paragone, però, lasciato lì, non sviluppato. Perché? Direi per il medesimo motivo, ma all’opposto, che ispirò a Tommaso Moro l’Utopia, coeva del Principe e dei Discorsi. Ossia perché l’America apparve sùbito, a Moro come a Machiavelli, un’utopia, un luogo senza origini e in quanto tale riempibile di qualunque significato: per la prima volta nella Storia il nuovo esprimeva un desiderio di cancellazione del passato, in qualche modo una nuova Genesi. Non era stato il caso del Nuovo Testamento, che non si era proposto come un’origine ma come una rinascita; il cristianesimo vincente non aveva cancellato il passato pagano e così la decadenza e caduta dell’impero romano non era stato un evento catastrofico ma soltanto straordinario. Così l’umanesimo quattro-cinquecentesco.
L’America, già nelle descrizioni di Vespucci, è mostrata come priva di Storia, dunque un non-luogo, una Ο?τοπε?α; e come tale, per alcuni, una specie di eden incontaminato, dunque una Ε?τοπε?α, un «ottimo luogo». In entrambi i casi un mito poco convincente per Machiavelli, che non credeva né nella natura come origine, come ho detto prima, né nella bontà naturale del genere umano, posizioni che invece saranno così importanti per il pensiero della modernità vincente, basti pensare, rispettivamente, a Hobbes e a Rousseau.
Per Machiavelli l’origine è politica, civile: è un atto, come ho detto irreversibile, di affrancamento, sia pure parziale, dalla natura. È la scoperta della virtù come antidoto allo strapotere della fortuna. In questo senso il Principe è un’anti-Utopia. A Machiavelli i non-luoghi non interessano; solo i luoghi concreti, e uno soprattutto, Firenze, in modo da poterli usare per esplorare il non-tempo: che è il futuro, il tempo nuovo. Non ci sono invece spazi nuovi. La sua politica ragiona del futuro della polis, dunque di una collettività in movimento, che in quanto collettività non può rinunciare a un codice, una langue per usare la terminologia linguistica di De Saussure, e in quanto viva e in movimento non può rinunciare alla parole.
Scrisse Antonio Negri una ventina d’anni fa che «la differenza distrugge ogni fondamento ontologico determinato» quando rifiuta «un’origine (gravata dal passato)» e riesce così a trasformarsi nella «determinazione creativa di un’ontologia della libertà». Sono troppi anni che vivo negli Stati Uniti per dare alcun credito alla differenza giustificata dalla retorica della creatività e dell’ontologia della libertà. La differenza italiana (era questo il titolo del libretto di Negri) a me pare ben altro ed è urgente recuperarla.
Per esempio attraverso Machiavelli. Ed Esposito, che nei suoi recenti libri sull’istituzione e soprattutto sull’istituire, ha dato grande rilievo a Machiavelli e al carattere fortemente innovativo dei suoi recuperi della fonte originaria, in una vitale dialettica di potere costituito e potere costituente.
La modernità vincente, prevalentemente anglosassone e oggi americana, ha schiacciato il tempo della vita sul presente (il presentismo studiato da François Hartog) e ha esteso enormemente lo spazio della vita globalizzandolo e universalizzandolo. L’Italia può e dovrebbe operare in maniera opposta. Buona parte dell’ambiente in cui viviamo, a cominciare da questo edificio, testimonia la nostra straordinaria capacità di «costruire nel tempo» (Building-in-time era il titolo di un bel libro sull’architettura italiana del Rinascimento di un mio collega a NYU, Marvin Trachtenberg), e non solo edifici; anche città e potenzialmente, cittadini.
Concluderei con una frase dal Principe (capitolo ii): «e nella antiquità e continuazione del dominio sono spente le memorie e le cagioni delle innovazioni, perché sempre una mutazione lascia lo adentellato per la edificazione dell’altra». L’addentellato. Ho dovuto cercarne la definizione sul vocabolario: è una struttura muraria che intenzionalmente include elementi sporgenti (borni) per permettere, in futuro, il collegamento di un altro muro, ancora non previsto ma che potrebbe esserci. Che splendida metafora della modernità altra, che campanilisticamente rivendico come italiana. Una modernità previdente, progettuale, cumulativa.
Liberato dalle false interpretazioni che ne hanno fatto o un profeta della modernità vincente o un retrivo oppositore della modernità in generale, Machiavelli può oggi aiutarci a uscire dalla modernità vincente e dei vincenti prima che sia troppo tardi. Non per tornare a una mitica età dell’oro, cosa che non avrebbe voluto e che comunque considerava impossibile (come abbiamo visto, neanche i sistemi ciclici riescono a ripetersi), ma per recuperare un senso della continuità e accumulazione in alternativa alla semplice cancellazione e sostituzione.