XIV Forum Eurasiatico: il discorso del prof. Antonio Fallico

XIV Forum Eurasiatico: il discorso del prof. Antonio Fallico

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di Demostenes Floros

 

Qui il programma con gli interventi

 

Nel corso del XIV Forum Eurasiatico tenutosi il 28-29 ottobre scorso a Verona, il Professore Antonio Fallico, Presidente di Banca Intesa Russia, Console Onorario della Federazione Russa in Verona e Presidente dell’Associazione Conoscere Eurasia, ha tenuto un importante intervento dinanzi ad una folta platea di rappresentanti della politica, dell’imprenditoria, della diplomazia e dell’energia provenienti da circa 40 paesi tra i più importanti al mondo, dagli Stati Uniti d’America alla Federazione Russa.

Tra i diversi temi affrontati, tutti particolarmente interessati, tre punti meritano un’attenzione particolare:

1) Nel momento attuale, che vede rapporti internazionali piuttosto tesi, nel campo dell’energia i rapporti di forza cominciano a volgere sempre più chiaramente a sfavore del blocco atlantico e a favore di Federazione Russa e Cina. Il taglio dell’intervento di Fallico sancisce e appalesa questo dato;

2) Il rapporto di forza materiale più favorevole a Russia e Cina porta con sé un tentativo (o un suo avviso) di egemonia ideologica, nei limiti della situazione attuale. Fallico non pare parlare a nome proprio e non affronta quella platea con comportamento personalistico, ma in qualche modo esprime una ideologia che promana dal potere politico russo e cinese. Anche cinese, perché nel suo discorso pare risuonino diverse parole d’ordine del PCC. Probabilmente, Fallico le usa per far capire ancor più chiaramente il suo ruolo e la situazione alle sue spalle. Il taglio dell’intervento andrebbe valutato dal punto di vista politico, non filosofico. Ovvero: la scelta del taglio potrebbe non corrispondere pienamente al pensiero di fondo dell’oratore, ma potrebbe essere stata calibrata in funzione del contesto e degli obiettivi.

3) La feroce critica al neoliberismo compiuta da Fallico non è stata una critica al capitalismo (anche se in taluni passaggi…!!!). La critica e la conseguente proposta di passare ad un modello economico (anche capitalistico) diverso, di cui ha dato alcuni accenni, può anche avere la funzione di indicare agli stessi borghesi occidentali in ascolto una via d’uscita per non essere travolti.

L'intervento integrale del professor Antonio Fallico:

Gentili Signore e Signori,

Autorità

Cari Amici,

Sono contento di ritrovare una platea gremita e di poter salutare personalmente i partecipanti al XIV Forum Economico Eurasiatico di Verona.

L’anno scorso, in piena pandemia e con le restrizioni sanitarie ed amministrative, eravamo solo una manciata di intrepidi. La maggioranza dei partecipanti ha seguito i lavori online: l’elevato numero, circa 5.000 persone, e la provenienza geografica ci hanno sorpreso positivamente. Quest’anno sono molti di più coloro che sono in collegamento streaming con noi da Italia, Russia, Austria, Germania, Francia, Belgio, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, Cina, India, Corea del Sud, Iran, Qatar, Bielorussia, Ukraina, Kazakhstan, Uzbekistan, Armenia, Kirghisia e da altri Paesi dell’Eurasia.

Questo Forum si svolge grazie al miglioramento della situazione sanitaria in Italia e in altri Paesi, al notevole ed entusiasmante lavoro svolto da numerosi attivisti e volontari, ragazze e ragazzi, impegnati nella sua preparazione. E grazie al sostegno delle Autorità, dei nostri partner e sponsor.

Ma siamo consapevoli di non poter cantare vittoria, saremo costretti a convivere con il Covid-19 e con le sue varianti ancora per un lungo periodo fino a quando non ne estirperemo le cause e non saremo in grado di assicurare il vaccino all’intera popolazione mondiale.

Innanzi tutto vorrei esprimere la mia profonda gratitudine al Sindaco di Verona, Federico Sboarina, per averci concesso ancora una volta ospitalità in questo storico Palazzo; al Prefetto e al Questore di Verona, Sua Eccellenza Giovanni Cafagna, e alla dottoressa Ivana Petricca, per il loro costante ed eccezionale sostegno nell’organizzazione di questo Forum.

Esprimo la mia doverosa riconoscenza per il grande contribuito che hanno dato alla riuscita di questo nostro evento alla Fondazione Roscongress, al Forum Economico Internazionale di S. Pietroburgo e alla Commissione Economica Eurasiatica; ai nostri partner: Fondo di Investimenti Region, Intesa Sanpaolo, Rosneft, Vneshtorbank, Gazprombank, Moskovskij Kreditnij Bank, VHS; e agli sponsor Banca Intesa Russia, CoeClerici, Generali Assicurazioni, Accenture.

Ringrazio vivamente, per la loro partecipazione ai nostri lavori, gli 82 relatori e in particolare: Andrej Slepnev, Ministro del Commercio della Commissione Economica Eurasiatica; Valerij Fadeev, Consigliere del Presidente della Federazione Russa; Aleksander Pankin, Viceministro degli Esteri della Federazione Russa; Dmitrij Volvach, Viceministro dello Sviluppo Economico della Federazione Russa; Vladimir ?izhov, Rappresentante Permanente della Federazione Russa presso l’Unione Europea; Giorgio Starace, Ambasciatore d’Italia nella Federazione Russa; Sergej Razov, Ambasciatore della Federazione Russa in Italia; Yerbolat Sembayev, Ambasciatore del Kazakhstan in Italia; Otabek Akbarov, ambasciatore dell’ Uzbekistan in Italia.

Un sincero ringraziamento a Giovanni Bazoli, al quale mi lega un rapporto professionale e di amicizia da oltre 35 anni, all’amico Romano Prodi, Presidente della Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli e del Comitato Scientifico del nostro Forum, che da sempre ci ha accompagnato con il suo grande contributo di idee; al professore Aleksandr Shokin, Presidente dell’Unione degli Industriali e degli Imprenditori Russi e Copresidente del Comitato Scientifico del Forum, che da 10 anni contribuisce in modo proattivo ai nostri lavori; a Francesco Profumo, Presidente dell’ACRI e Presidente della Compagnia S. Paolo; a Marco Tronchetti Provera, Ceo e Vicepresidente esecutivo di Pirelli e Co-Presidente del Comitato Imprenditoriale Italo-Russo per la Cooperazione Economica; ad Emma Marcegaglia, Presidente e Amministratore Delegato di Marcegaglia Holding e Presidente del B 20; a Carlo Bonomi, presidente di Confindustria; a Rodolfo Errore, Presidente di Sace; ad Andrew Morlet, Ceo di Ellen MacArthur Foundation; a Garegin Tosunyan, Presidente dell’Associazione delle Banche Russe; ad Andrej Kostin, Presidente del Consiglio di Amministrazione di Vneshtorgbank e membro del Consiglio di Amministrazione di Conoscere Eurasia; a Sergej Sudarikov, Presidente del Fondo di Investimenti Region; ad Andrej Akimov, Presidente di Gazprombank e ad Aleksandr Abramov, Presidente di Lex System.

Un ringraziamento particolare a Viktor Zubkov, presidente del Consiglio di Amministrazione di Gazprom; a Veronika Nikishina, Amministratore Delegato del Centro Russo di Esportazione; Leonid Mikhelson, Presidente del Management Board di Novatek; Vladimir Chubar, Presidente di Kreditnij Moskovskij Bank; Luciano Cirinà, Amministratore delegato regionale di Generali per Austria, Europa orientale e Russia; Simone Crolla, Amministratore delegato della Camera di Commercio Americana in Italia; Viktor Velkselberg, Presidente del Consiglio di Amministrazione del Fondo Skolkovo; Sergej Katyrin, Presidente della Camera di Commercio e dell’Industria della Federazione Russa.

Vorrei ringraziare sentitamente Fabio Tamburini, direttore del Sole 24 Ore, e i moderatori delle varie sessioni, i settanta giornalisti e gli interpreti simultanei che saranno particolarmente impegnati in questi due giorni.

Infine, un affettuoso e profondo sentimento di gratitudine va a Igor Se?in, Presidente e Ceo di Rosneft, che da parecchi anni sostiene con convinzione e determinazione le nostre iniziative, contribuendo notevolmente allo sviluppo delle relazioni economiche della Federazione Russa a livello globale. In modo particolare gli siamo grati per avere accettato di essere Presidente del nostro Forum Eurasiatico.

Cari Amici,

All’ordine del giorno del nostro XIV Forum Economico Eurasiatico proponiamo un dibattito aperto e approfondito sul contributo concreto che la Grande Eurasia, che va dall’Atlantico al Pacifico, può dare per la transizione verso un nuovo ordine geopolitico ed economico-sociale. A tal fine vogliamo analizzare in modo scientifico e professionale il ruolo delle fonti energetiche nella transizione ecologica a livello mondiale, dell’economia circolare, dell’innovazione tecnologica e digitale, dell’industria 5.0, del sistema finanziario e bancario, dell’industria farmaceutica. Ma queste analisi hanno un corollario indispensabile, oggetto della nostra discussione. Esso consiste nella necessità di superare l’attuale sistema economico-sociale e l’ordine monopolare della governance internazionale ereditato dalla caduta dell’Unione Sovietica.

Per raggiungere questo obiettivo la diplomazia tradizionale, da sola, non è più sufficiente. Perciò dal nostro dibattito di questi due giorni emergerà l’esigenza di mobilitare la diplomazia del business a livello internazionale, che è capace di abbattere muri ideologici e sovrastrutturali e barriere geopolitiche a favore di uno sviluppo economico internazionale umanistico e inclusivo, che è capace di assicurare la salvezza, la pace e la prosperità del nostro pianeta.

Gli anni 2020 e 2021 passeranno alla storia per la pandemia da SARS-CoV-2, che ha provocato una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti a livello globale. Dalla dichiarazione ufficiale della pandemia dell’11 marzo 2020 da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si sono registrati, secondo gli ultimi dati della stessa Organizzazione (aggiornati al 26 ottobre 2021) oltre 243,6 milioni di casi e 4 milioni 948 mila morti. Il Covid-19 è il primo evento pandemico che abbia investito simultaneamente, e con una velocità di contagio impressionante, tutti i continenti.

Il Coronavirus ha avuto un forte impatto sul mondo del lavoro: scuole chiuse, smart working, home delivery, strade e piazze deserte in tutte le grandi metropoli del mondo. Centinaia di migliaia di imprenditori si sono dovuti arrendere al fallimento delle loro aziende e decine di milioni di persone si sono trovate senza un lavoro dall’oggi al domani.

Dalla crisi pandemica dobbiamo trarre tutti - scienziati, politici, imprese, persone comuni e intellettuali - la lezione di un grande bagno di umiltà. Troppo a lungo è stata coltivata l’illusione secondo cui le nuove tecnologie del digitale, prodotte dalla quarta rivoluzione industriale, ci avrebbero assicurato una crescita lineare senza limiti di sorta.

Le prospettive di crescita per i prossimi due anni sembrano positive, ma prossimamente dovremo affrontare sfide storiche dovute alla crisi economica strutturale, aggravata da quelle climatica e della biodiversità.

Per ripartire non ci si può limitare a ripristinare semplicemente il modello economico attuale, accontentandoci di migliorare in modo marginale il nostro sistema sanitario per far fronte alla prossima pandemia.

La pandemia da Covid-19 non è un cosiddetto “cigno nero”, un evento inatteso e imprevedibile, né uno “shock esogeno”. È un disastro prodotto dall’uomo che, nel determinare alterazioni traumatiche della natura, si ritorce contro mettendo a nudo la nostra vulnerabilità.

La pandemia sanitaria ed economica è una delle inevitabili conseguenze dell’Antropocene, l’epoca geologica in cui viviamo, dove l’ambiente terrestre - inteso come l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita - è fortemente violentato su, sia su scala locale che globale, dagli effetti dell’azione umana: effetti che sono stati aggravati notevolmente dal sistema neoliberistico, che da oltre 50 anni plasma la politica economica e la vita della stragrande maggioranza dei Paesi del mondo: megalopoli disumane; aumento endemico delle disuguaglianze sociali; urbanizzazione frenetica che distrugge gli habitat animali.

La pandemia è figlia proprio del neoliberismo, che è basato sull’assoluta fiducia nel mito del mercato globale deregolamentato, esaltato come il più razionale ed efficace strumento di sviluppo dell’economia, e sul profitto privato illimitato, considerato unico vero obiettivo economico. Il neoliberismo, inoltre, viene considerato il solo sistema in grado di difendere i valori della democrazia. Mentre è evidente che la legge assoluta del mercato impedisce l’organizzazione del sistema economico in funzione dei bisogni della popolazione e assoggetta invece la popolazione stessa alla necessità di riproduzione e valorizzazione del capitale.

Dobbiamo renderci conto, quindi, che il nemico numero uno dello sviluppo economico a servizio dell’umanità è proprio il modello neoliberistico. Chi ancora lo sostiene o è un incompetente o lo fa in cattiva fede, è giunto ad affermare in una recente intervista sull’”Osservatore romano”, organo del Vaticano, Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Il neoliberismo, inoltre, ha fortemente alimentato anche il postmodernismo e la postdemocrazia.

La pandemia si è abbattuta su un mondo afflitto anche da inconcepibili disuguaglianze sociali.

Un mondo in cui:

- 2000 miliardari possiedono maggiore ricchezza di quanta non se ne possa spendere in un migliaio di vite;

- 3 miliardi di persone sono costrette a sopravvivere con meno di 5,5 dollari al giorno;

- 1 miliardo e 300 milioni di persone sopravvivono con 1 dollaro al giorno e non hanno accesso a fonti di d’acqua potabile;

- 2 miliardi di persone non possono usufruire dell’elettricità;

- l’1% più ricco dispone del 18% di tutta la ricchezza mondiale e brucia il doppio di carbone rispetto al 50% più povero, acuendo l’attuale crisi climatica e ambientale;

- ogni anno muoiono 30 milioni di persone di fame e 7 milioni di bambini a causa della crisi del debito pubblico del loro paese;

- 2 miliardi di persone soffrono di anemia e 790 milioni di persone di sottoalimentazione cronica;

- i Paesi in via di sviluppo per 1 dollaro di sussidio ricevuto spendono 13 dollari per ripagare il debito;

- 1 miliardo di persone non sa né leggere né scrivere il proprio nome.

La pandemia ha persino incrementato le disuguaglianze, rendendo più ricchi i ricchi e più poveri i poveri.

Essa ci ha costretto a capire che non esiste uno sviluppo economico praticabile senza un sistema di regole e servizi pubblici forte, e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo, perché questa pandemia, come si diceva, purtroppo non sarà l’ultima. La deforestazione ci mette in contatto con animali i cui virus non ci sono noti. Lo scongelamento del permafrost minaccia di diffondere pericolose epidemie, come l’allevamento intensivo.

Molto presto dovremo riconvertire la produzione, regolamentare i mercati finanziari, ripensare gli standard contabili al fine di migliorare la resistenza dei nostri sistemi di produzione. E addirittura ripensare radicalmente i criteri alla base della valutazione e determinazione del Prodotto interno lordo. Il PIL non è una buona misura perché cattura la quantità ma non la qualità della crescita e potrebbe essere sostituito da altri indici, tra cui l’indice di sviluppo umano e l’indice di benessere economico sostenibile.

La pandemia ci costringe a trasformare radicalmente le nostre relazioni sociali. Oggi il neoliberismo conosce “il prezzo di tutto e il valore di niente”, per citare un’efficace citazione di Oscar Wilde. Dobbiamo capire che la vera fonte di valore sono le relazioni umane e quelle con l’ambiente. Privatizzandole le distruggiamo e roviniamo le nostre società, mentre mettiamo a rischio vite umane. Non siamo monadi isolate, collegate solo da un astratto sistema di prezzi, ma esseri umani interdipendenti con gli altri e con il territorio. La salute di ciascuno riguarda tutti gli altri. La salute è un bene comune globale e deve essere gestita come tale.

Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere forti le nostre società. I “beni comuni” aprono uno spazio tra il mercato e lo Stato, tra il privato e il pubblico.

La paura della scarsità dei beni, che abbiamo scoperto durante questa pandemia, ha un risvolto positivo: ci libera dal narcisismo consumistico, dal “voglio tutto e subito”. Ci riporta all’essenziale e alla qualità delle relazioni umane e alla solidarietà.

Benvenuti, perciò, in un mondo limitato. Per anni, i miliardi spesi per il marketing ci hanno fatto pensare al nostro pianeta come a un gigantesco supermercato, in cui tutto è a nostra disposizione a tempo indeterminato. Dobbiamo abituarci a vivere in felice sobrietà e rispettare la finitudine del nostro mondo.

Ma nell’immediato, per far fronte all’emergenza economica attuale, è necessario non solo iniettare liquidità nell’economia reale, ma creare posti di lavoro. Il lavoro è “involontariamente” in sciopero. Non siamo solo di fronte a una carenza keynesiana della domanda, ma di fronte anche a una crisi dell’offerta. In tale contesto l’iniezione di liquidità è tanto necessaria quanto insufficiente. Essere appagati da questo equivarrebbe a dare le stampelle a qualcuno che ha appena perso le gambe. Solo lo Stato, perciò, può creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire la massa di lavoratori che hanno perso il lavoro. Naturalmente affinché ciò abbia un senso, dobbiamo pensare al tipo di settori industriali che vogliamo sviluppare nella prospettiva di un’economia al servizio dell’uomo.

Dobbiamo quindi promuovere un radicale rinnovamento ideale e culturale e, al tempo stesso, costruire pazientemente e nel concreto un’alternativa al modello economico neoliberistico. Dobbiamo confutare lo scetticismo epistemologico e il relativismo individualistico del postmodernismo, che ha annunciato la fine della politica, delle idee e della scienza. Dobbiamo infine affermare la capacità cognitiva umana della realtà oggettiva, naturale e sociale, e della storia contro la commistione oggi dominante tra realtà e finzione, tra verità e falsità.

Oggi siamo bombardati sui media e sulle piattaforme digitali dalle cosiddette post-verità: informazioni caratterizzate da coinvolgente emotività, basate su credenze diffuse e non su fatti verificati, che si spacciano per veritiere per influenzare l’opinione pubblica. La verità viene violentata dalla supremazia ideologica o geopolitica. La Rete veicola un flusso di informazioni incontrollabile e al tempo stesso incontrollato, fake news e informazioni ingannevoli e notizie deliberatamente false (RACHELE FRATINI, La credibilità dell’informazione nell’epoca della post-verità, tesi di laurea, 2019-2020, LUISS). In questo humus è cresciuta l’invasione americana dell’Iraq del 20 marzo 2003, giustificata dall’allora segretario di Stato Usa Colin Powell dinanzi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 5 febbraio precedente con l’accusa che l’Iraq era in possesso di armi batteriologiche. E a dimostrazione esibì con un gesto teatrale una fiala che conteneva una polvere bianca, impressionando i presenti col dire che un quantitativo simile di antrace avrebbe potuto uccidere tutti i presenti e che l’Iraq disponeva di un programma di armi chimiche e batteriologiche. Più tardi abbiamo saputo dallo stesso Power, da poco defunto, che era tutto falso, ma quella guerra causò oltre 200 mila morti tra i civili iracheni. Da queste stessa matrice di falsità sono nati vari pretesti per imporre sanzioni alla Russia, come, ad esempio, il Boeing 777 della Malaysia Airlines, il cui tragico abbattimento è stato attribuite senza alcun fondamento all’esercito.

Abbiamo il dovere, inoltre, di rifiutare la concezione dell’uomo-merce, connaturata al sistema politico postdemocratico. In tale contesto occorre riflettere per superare la democrazia del terzo millennio, che appare limitata al rispetto formale delle regole democratiche, ma sempre meno partecipata dai cittadini e sempre più controllata da lobby, soprattutto private, hi-tech, mass media, società finanziarie, economiche e politiche.

Il nostro imperativo categorico è di contrastare l’egemonia culturale neoliberistica, che oggi viene messa in discussione non solo da parte di economisti e intellettuali storicamente critici nei confronti di questa ideologia, come il premio Nobel Joseph Stiglitz, ma anche da parte di quel coro di voci che per anni aveva decantato le lodi del neoliberismo, diffondendone il vangelo in tutto il mondo.

Anche il Fondo Monetario Internazionale, storico paladino neoliberistico ante litteram, ha compiuto da poco una svolta, riconoscendo che il neoliberismo ha accresciuto le disuguaglianze sociali. La Commissione Europea oggi promuove il miglioramento delle performance ambientali e occupazionali delle imprese, producendo una cospicua normativa per favorire la transizione del sistema economico: indici ESG (Environmental, Social & Governance) e “tassonomia” degli Impact Investing destinati a finalità sociali, il cui volume nel 2020 ha raggiunto 750 miliardi di Usd secondo il Global Impact Investing Network.

Se da una parte il neoliberismo è ormai in profonda crisi, dall’altra ancora non si profila nitidamente il nuovo paradigma economico. E si corre il rischio di una possibile involuzione. In questo interregno si colloca il libro di Klaus Schwab e Thierry Malleret, Covid 19: The Great Reset, uscito nel giugno del 2020, che rappresenta il manifesto economico del fondatore e dei sostenitori del Forum di Davos e che intende risolvere la crisi dell’attuale modello di sviluppo rivolgendosi soprattutto a un’élite mondiale e a quel vasto mondo che aspira a diventarlo.

Ma la soluzione di Schwab minimizza il ruolo dello Stato. Si tratta di una soluzione integralmente elitaria e fondata sul protagonismo delle aziende globali, alle quali si chiede un deciso cambio di prospettiva e quindi di farsi carico della responsabilità sociale verso la comunità e dei relativi oneri.

In sostanza Schwab propone di superare lo Shareholder capitalism in favore di un nuovo capitalismo che, invece degli azionisti, pone al centro le imprese private come “fiduciari della società”. Le stesse imprese dovrebbero farsi carico, nei confronti della società civile, di sostenere i diritti umani e dei lavoratori, di perseguire uno sviluppo economico sostenibile e di creare valore per tutti i loro stakeholder: dipendenti, clienti, fornitori, comunità locali. Addirittura le aziende multinazionali non solo sarebbero chiamate a perseguire gli interessi di quegli stakeholder che sono direttamente coinvolti, ma dovrebbero comportarsi come stakeholder, insieme ai governi e alla società civile, del nostro futuro globale.

L’alternativa al neoliberismo proposta da Schwab non è convincente. Ma davvero c’è un’identità profonda tra il bene collettivo e la responsabilità e capacità del sistema delle grandi imprese di conseguirlo? E la governance del post-neoliberismo potrà ragionevolmente essere affidata ai medesimi attori e responsabili del fallimento dell’economia neoliberista? A qualcuno sembra che si voglia cambiare tutto per non cambiare niente, come narrava Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo.

Il manifesto del Forum di Davos si colloca in una concezione ancora monopolare della governance internazionale, non rispecchia il profondo processo di trasformazione sociale, economica e geopolitica che attualmente viviamo a livello planetario. È come se oggi avessimo l’ambizione di esplorare il cosmos, ricorrendo ancora all’osservatorio astronomico del principe di Samarcanda Ulugh Beg che, tuttavia, nel 1429 disponeva del quadrante più grande del mondo.

Il predominio degli Usa e dei suoi alleati appare in declino, ma ancora non si delinea all’orizzonte un nuovo ordine geopolitico ed economico.

Oggi assistiamo a un processo di deglobalizzazione. Si sono formati alcuni centri di governance regionali e macroregionali, che tendono a chiudersi verso la concorrenza esterna per sviluppare al loro interno un mercato unificato con regole e standard comuni. L’eliminazione delle barriere commerciali e le standardizzazioni, che prima venivano applicate a livello globale, sopravvivono soltanto a livello regionale. Come prima conseguenza, vediamo l’evoluzione delle catene produttive e logistiche, destinate a essere ricollocate geograficamente vicino ai consumatori.

Da questa crisi sistemica possiamo uscire soltanto con un’alleanza multipolare, riconoscendo gli interessi e il ruolo economico e geopolitico di ogni Paese. Per superare l’attuale modello economico e al tempo stesso assicurare al nostro pianeta sicurezza e prosperità, è assolutamente necessario coinvolgere attivamente la Grande Eurasia, che va dall’Atlantico al Pacifico.

È interesse fondamentale di tutti i player geopolitici mondiali: dell’America del Nord (Usa, Canada e Messico), di Cina, India, Russia, Iran, Unione Europea e Unione Economica Eurasiatica.

L’Amministrazione Biden, che si basa su forze politiche, sociali e lobbistiche eterogenee, appare debole e contraddittoria. Questa, da una parte cerca di rilanciare l’egemonia globale degli Usa, sia dirigendo la strategia militare della Nato, sia promuovendo la Santa Alleanza delle cosiddette democrazie del mondo contro i Paesi cosiddetti non democratici. Mentre dall’altra è protagonista della caotica fuga delle truppe americane dall’Afganistan, giustificata da Joe Biden nel suo memorabile discorso del 31 agosto 2021 nel quale ha dichiarato che gli Usa non si considerano più una potenza egemone e non saranno più “esportatori della democrazia” nel mondo, ma soltanto “protettori della loro stessa democrazia”. Contemporaneamente, però, gli Stati Uniti hanno costituito due nuove alleanze militari contro la Cina e la Russia: la Quad, insieme ad Australia, India e Giappone); e la Auk con l’Australia e la Gran Bretagna.

Sarebbe auspicabile che gli Usa agissero con realismo per garantire la sicurezza internazionale, ricercando un consensus con Cina, India, Russia, Europa e Grande Eurasia sui problemi più scottanti del mondo d’oggi (crisi economica, climatica e biodiversità), e rinunciando alle avventure e provocazioni militari con la Repubblica Popolare Cinese e con la Federazione Russa. Non è affatto un mistero che l’alleanza strategica e militare fra la Cina e la Russia costituisce una potenza economica e nucleare per lo meno pari a quella espressa dagli Stati Uniti.

La Cina sta vivendo una profonda trasformazione della propria politica economica, passando dalla priorità dell’esportazione, in quanto driver della crescita delle aziende correlate, a quella del consumo interno e dello sviluppo del mercato nazionale. Le tensioni militari e commerciali con gli Usa hanno accelerato questo trend, che si era manifestato da tempo. Già nel 2019 il volume delle merci trasportate tra la Cina e gli Usa via mare era diminuito del 2,5%, contraendosi ulteriormente di 4 volte nell’anno successivo.

D’altra parte gli investimenti di Pechino all’estero decrescono. Nel primo semestre del 2020 nei Paesi coinvolti dal programma One Belt, One Road, gli investimenti cinesi si sono fermati a 23,5 miliardi di Usd contro i 46,8 miliardi del primo semestre del 2019. Negli altri Paesi i finanziamenti di Pechino nello stesso periodo sono passati da 21,5 miliardi a 4,4 miliardi.

Un evento sul quale vorrei attirare la vostra attenzione è avvenuto il 26 novembre del 2020.

Dopo 8 anni di trattative è stata costituita la più grande zona di libero scambio al mondo, la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), formata, oltre che dai 10 Paesi dell’Asean e dalla Cina, anche da Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda, che sono stretti alleati politici e militari degli Stati Uniti nella Regione. Ma gli Usa, pur essendo una potenza del Pacifico, sono assenti da questa Partnership, che ha il potenziale di diventare, con circa 2 miliardi di abitanti, il nuovo centro dello sviluppo mondiale.

Si noti che questa nuova struttura è nata in un momento in cui altri centri di sviluppo perdevano slancio. Pensiamo ad esempio al Giappone, la cui economia è orientata all’export, ma da un trentennio non esce da una situazione di stallo.

La nuova struttura aggregativa (RCEP) con le varie agevolazioni a favore del commercio transfrontaliero, permetterà di accrescere i flussi commerciali con i Paesi aderenti, in particolar modo con la Cina.

Al tempo stesso sappiamo che, politicamente, Giappone e Cina sono rivali. Possiamo interpretare questo fatto come una conferma che la convenienza economica possa minare gli accordi politici?

Certamente la realtà non è bianca o nera, bensì complessa e piena di sfumature. Ma questa alleanza economica tra la Cina e gli alleati politici degli Usa potrebbe rappresentare una svolta estremamente interessante sul piano geopolitico. Cosa che deve farci comunque riflettere.

Quanto all’Unione Europea, dopo l’emergenza pandemica ha buone possibilità di sviluppo economico nel breve-medio periodo, ma tuttora vive difficoltà e frustrazioni a causa dell’eccessivo aumento delle materie prime e soprattutto energetiche, delle aspirazioni centrifughe di alcuni suoi membri, come la Polonia, dei complessi sistemi decisionali al suo interno e di una politica economica e internazionale, che talvolta sembra ignorare i suoi interessi economici, soprattutto nei riguardi della Cina, della Federazione Russa e dell’Unione Economica Eurasiatica, con cui, tuttavia, le aziende europee vogliono sviluppare rapporti economici autonomi rispetto agli Usa. D’altra parte l’UE, soprattutto dopo quanto è accaduto in Afganistan, ed era accaduto in Siria, Libia e Ucraina, è spaesata per due ragioni: prima, perché è costretta a registrare la decisione “isolazionista” americana, inducendola a dotarsi di una Difesa autonoma anche rispetto alla Nato; la seconda, perché gli attuali target prioritari strategici degli Usa, da contenere e osteggiare, vale a dire la Cina e la Russia, sono di fatto fra i più importanti partner commerciali ed economici dell’Europa.

Il 30 dicembre 2020, infatti, Bruxelles e Pechino hanno firmato, dopo 7 anni di trattative, il Comprehensive Agreement on Investment (CAI), un accordo bilaterale per gli investimenti che apre il mercato cinese alle imprese dei Paesi membri dell’UE. La Cina, del resto, nel 2020 ha sorpassato gli Stati Uniti, diventando il primo partner commerciale dell’Unione Europea. Gli scambi commerciali UE-Cina hanno raggiunto 586 miliardi di euro, in crescita del 4,4%, mentre quelli con gli Usa si sono fermati a 555 miliardi di Euro (-10%). Questo trend si afferma anche nel periodo gennaio-luglio 2021: l’interscambio UE-Repubblica Popolare Cinese ha superato i 373 miliardi di euro, mentre quello con gli Usa si è attestato su 353 miliardi. Occorre notare che l’interscambio tra Unione Europea e Russia sempre nei primi sette mesi di quest’anno, si è attestato a 121,3 miliardi di euro, mentre in assenza di sanzioni e discriminazioni avrebbe sicuramente raggiunto i 200 miliardi.

Le scelte strategiche che verranno effettuate da Bruxelles disegneranno i contorni e le potenzialità non solo del ruolo geopolitico dell’Unione nel mondo in formazione, ma anche il suo futuro economico. Cito, senza entrare nei dettagli, solo un esempio: senza il Nord Stream 2, l’economia europea, soprattutto quella tedesca, perderebbe gran parte della sua competitività sui mercati mondiali. Le conseguenze sono ovvie.

Nell’ambito dell’Unione Economica Eurasiatica si rafforzano le tendenze integrazionistiche. Certo, l’instabilità politica in Armenia, Bielorussia e Kirghisia può inquietare. Ma si ha la speranza che questi Paesi sapranno superare le attuali difficoltà uscendone rafforzati, con delle istituzioni più efficienti e con la consapevolezza della necessità di un’integrazione regionale più organica: una condizione indispensabile per uno sviluppo economico equilibrato e pronunciato.

La Russia, rafforzata dal fatto di essere il motore dell’Unione Economica Eurasiatica, acquisisce un ruolo importante, esaltato in parte da fattori geografici. La sua economia e le economie dei Paesi aderenti all’UEEA sono complementari con quelle dei Paesi ad Est e ad Ovest di questa parte del mondo: sia per quanto riguarda la stessa struttura economica, la produzione, i mercati, la domanda e l’offerta, sia per la possibilità di elaborare e promuovere congiuntamente nuove tecnologie e prodotti innovativi.

Il valore strategico della Federazione russa viene accentuato, inoltre, dalla sua funzione propulsiva all’interno della Shangai Cooperation Organization (Sco), un’alleanza politica, economica e per la sicurezza eurasiatica, alla quale aderiscono anche la Cina, l’India e il Pakistan; e nell’ambito del Bricst, i cui membri sono Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e Turchia.

Una menzione speciale meritano i corridoi di trasporto, che assicurano la logistica del commercio e le forniture. Il recente blocco del canale di Suez ha dimostrato il bisogno di disporre di alternative utilizzabili lungo le rotte tra l’Asia Orientale e l’Europa. Le più evidenti sono le vie onshore attraverso la Russia e la Grande Via Marittima del Nord, che diventa sempre più praticabile e comoda. Anche senza tenere conto dell’incidente relativo al porta container Ever Given, i transiti navali, via i mari Artici lungo le coste russe, sono considerevolmente aumentati, passando da 697 nel 2019 a 1281 nel 2020. Si stima che l’itinerario da Shangai a Rotterdam tramite il Grande Nord faccia risparmiare circa il 20% dei costi e una settimana di viaggio rispetto all’utilizzo del Canale di Suez.

In pratica la Russia diventa un legame naturale tra l’Unione Europea e l’Asia Orientale, punto di riferimento per uno sviluppo armonioso e inclusivo dell’economia nello spazio tra l’Atlantico e il Pacifico. Da parte sua l’Italia, legata alla Russia da storiche relazioni di amicizia e di cooperazione scientifica, industriale ed economica, può divenire un partner privilegiato della Russia e della Grande Eurasia nel rapporto con gli Stati Uniti e il Nord America.

Alla luce delle riflessioni precedenti si possono trarre alcune considerazioni:

1. Per superare la crisi strutturale e gli effetti disastrosi del neoliberismo e della pandemia, che oggi colpiscono la maggior parte della popolazione mondiale, è urgente superare tempestivamente le barriere geopolitiche, gli schieramenti militari e i pregiudizi ideologici. E, insieme - nel quadro di una governance multipolare con un ruolo attivo della Russia, della Cina e della Grande Eurasia - promuovere una rivoluzione culturale, etica ed economica che ci permetta di delineare un nuovo modello di sviluppo sociale ed economico globale, che metta al centro la dignità e i valori umani autentici. Soltanto tramite una solidarietà globale possiamo gestire con saggezza l’emergenza sanitaria, le molteplici crisi o le guerre che affliggono numerose regioni del mondo, combattere con successo il terrorismo fondamentalistico, il narcotraffico e i flussi migratori biblici che attualmente minacciano la sicurezza internazionale.

È urgente riformare profondamente le strutture, ormai obsolete e non rispondenti alla realtà odierna, dell’ONU, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. E affidare l’Agenda economica, commerciale e sociale al G20 o a un format ancora più ampio, abbandonando il ristretto G7.

È inderogabile rendere la governance commerciale multilaterale capace di abbattere i muri commerciali eretti dal protezionismo, riformando il WTO e ripristinando la legittimità dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, a partire dalla prossima XII Conferenza Ministeriale, che si terrà dal 30 novembre al 3 dicembre prossimi a Ginevra, sotto la presidenza di Bakhyt Sultanov, ministro del Commercio e dell’Integrazione del Kazakhstan.

A tale proposito è necessario desistere quanto prima possibile dalla pratica degli embarghi e delle sanzioni, le quali, oltre che pretestuose e illegittime, si sono dimostrate dannose soprattutto per quei Paesi che le hanno imposte.

Non è più ammissibile che la crescita economica e i beni comuni universali, come la salute, siano ostaggi delle sovrastrutture geopolitiche, vietando persino vaccini anti-Covid di comprovata efficacia, come lo Sputnik V, anche nei casi di estremo bisogno della popolazione. A tale riguardo vorremmo sensibilizzare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).

2. Soltanto insieme, nel quadro di una governance multipolare, possiamo costruire un’economia umanistica. Oggi in Europa e nel mondo si intende perseguire con determinazione la transizione climatica e la transizione digitale, alle quali sono state assegnate ingentissime somme dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, dalla Russia, Cina, India, Giappone e da numerosi Paesi del mondo.

Ma per raggiungere questi obiettivi occorre mettere in pratica una strategia comune a livello multilaterale.

Credere di stabilire l’armonia con l’ambiente, sostituendo il fotovoltaico al petrolio, l’eolico al carbone, il biogas al gas naturale, la plastica biodegradabile a quella fatta di petrolio, è un errore che lascia le cose come stanno, continuando a navigare verso la catastrofe solo a velocità più ridotta.

Dal dibattito sull’energia bisogna eliminare troppi equivoci, illusioni diffuse e pregiudizi ideologici. Al contrario occorre avere un approccio laico, realistico e non prevenuto. L’Italia, ad esempio, ha rinunciato al nucleare da fissione, senza aver deciso, peraltro, dove stoccare le scorie, ma partecipa al progetto Iter (International thermomuclear experimental reactor) per i reattori da fusione. L’Eni recentemente ha annunciato i progressi di una sua controllata nella ricerca della “fusione a confinamento magnetico”. Pur di togliere l’imbarazzante aggettivo “nucleare” si preferisce chiamarla energia stellare. Sarebbe miope, oltre che stupido, se si respingesse a priori una conquista della scienza senza valutarne convenienza e rischi. Se poi fossimo coerenti con le nostre scelte, non dovremmo acquistare energia elettrica dai francesi. Il 4% di quella che consumiamo in Italia è prodotta dal nucleare di cui non vorremmo più sentire parlare. Ma facciamo finta di niente.

Abbiamo in Italia una sorta di populismo ambientalista, si dice no alla carbon capture storage, tecnologia nella quale possiamo essere all’avanguardia nel mondo, si dice no al nucleare senza distinguere tra fissione e fusione, si dice no ai biocarburanti avanzati, ad esempio quelli prodotti dai rifiuti.

Al tempo stesso la quota di fonti fossili nella copertura dei nostri fabbisogni energetici è ancora all’80% e al 65% nella generazione elettrica. Il contributo delle rinnovabili è aumentato, arrivando a circa il 10% del totale, a discapito non delle fossili, ma cannibalizzando il nucleare, unica altra fonte carbon zero, espunta per ragioni sostanzialmente ideologiche dalle politiche energetiche in Occidente, ma non in Oriente. In Russia, ad esempio, il nucleare contribuisce al portafoglio energetico per il 21%, mentre l’idroelettrico per il 26% e il gas metano per il 40%.

Senza il nucleare di ultima generazione, la lotta al riscaldamento climatico, già ardua, è quasi impossibile. In 15 anni nel mondo si sono investiti, nelle fonti rinnovabili (in particolare solare ed eolico) 3 trilioni e 800 miliardi di dollari, in larga parte sussidiati per avere risultati finora non eccezionali. In Italia in 10 anni abbiamo pagato sussidi a carico delle famiglie e delle imprese per 130 miliardi di euro.

Nel 2019 l’Italia emetteva ancora 418 milioni di tonnellate di CO2 (ridotte del 19% rispetto al 1990), ma per raggiungere l’obiettivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza, la Net zero emission, deve accelerare di 4 o 5 volte la velocità media di abbattimento degli ultimi 29 anni. E moltiplicare per 10 la potenza di rinnovabili installate. La verità, afferma l’Agenzia di Parigi, è che per arrivare alla neutralità nelle emissioni le tecnologie esistenti possono contribuire per un quarto. Gli altri tre quarti del percorso sono tutti da sviluppare con tecnologie in larga parte allo stato embrionale.

È, inoltre, diffusa la sensazione che la transizione ecologica equivalga a cambiare un’auto diesel con un’ibrida o elettrica, beneficiando di sussidi e incentivi a carico della comunità. Ma si passa all’elettrico senza porsi il problema di come questa energia sia stata prodotta.

Un solo esempio, la Germania, capofila della sostenibilità a livello europeo, ha impiegato nel primo semestre di quest’anno il 40% di carbone in più per produrre energia elettrica. Nonostante il raddoppio da inizio 2021 del prezzo degli Ets, i certificati per le emissioni inquinanti, il carbone resta più conveniente.

L’elettricità è certamente una delle soluzioni, anche se non sempre raggiungibile. L’Italia deve aumentare la generazione di elettricità da 116 TWh (terawattore: 1 TWh: 1 miliardo di kWh) del 2019 ai 200 del 2030. Come? È difficile con l’idroelettrico, immaginate oggi quanta opposizione susciterebbe costruire una diga che crei un lago artificiale. L’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, ritiene più efficiente decarbonizzare la produzione elettrica esistente, che al 60% in Italia non viene generata da rinnovabili, prima di pensare ad altri usi, come per esempio l’idrogeno verde che pure ha un ruolo non secondario nel Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Si nascondono o si considerano poco i costi della transizione, dei quali è politicamente sconveniente parlare. E si preferisce alzare l’asticella delle aspettative della sostenibilità, disegnando scenari tanto attraenti quanto difficilmente raggiungibili, senza sottolineare così l’impegno e i sacrifici necessari. I costi sono anche politici, perché (e non lo si dice) sono i ceti popolari e le produzioni a minor valore aggiunto (trasporti, agricoltura) le categorie destinate a pagare i prezzi più elevati.

Occorre, inoltre, non trascurare un altro aspetto nel dibattito sulla transizione energetica: l’andamento dei prezzi relativi delle varie fonti può essere in prospettiva incongruente con gli obiettivi del Green Deal europeo e del Fit for 55. Un’auto elettrica richiede mediamente 80 chili di rame, il quadruplo di una tradizionale. Anche ai prezzi attuali la maggiore domanda di rame avrebbe da sola un valore pari al costo del petrolio risparmiato dalle auto elettriche.

Non possiamo sorvolare sul fatto che stiamo andando dritti verso un nuovo choc indotto dalla ripresa economica e dal calo “virtuoso” degli investimenti in estrazioni e in produzioni di petrolio, carbone e gas naturale. Nei prossimi mesi rischiamo di lamentarci della mancanza, oltre che del costo, di ciò che vorremmo eliminare al più presto per combattere le emissioni che alterano il clima. I prezzi sono ai massimi. Il costo all’ingrosso di un chilowattora è quadruplicato in un anno. Le imprese sono preoccupate. L’Arera sarà costretta ad aggiornare le tariffe di consumo di gas e luce con un prevedibile aumento del 30%.

Nessuno mette in dubbio la necessità vitale di una più vigorosa lotta al cambiamento climatico nel tentativo di contenere, secondo l’Accordo di Parigi, l’aumento della temperatura media a 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale, ma ci si domanda se l’obiettivo non sia meno difficilmente raggiungibile con un dibattito più sincero e responsabile. Come ha scritto lo scienziato dell’energia, molto amato anche da Bill Gates, Vaslav Smil, farsi guidare dal populismo velleitario non è mai la strategia migliore, specie per tematiche che riguardano le fondamenta vere e proprie della nostra civiltà.

A questo proposito registriamo con interesse la seguente dichiarazione di Emma Marcegaglia, presidente del B 20, la quale nel corso del vertice conclusivo a Roma degli oltre mille delegati di tutti i Paesi del G 20 in rappresentanza di oltre 6, 5 milioni di imprese, del 7 e 8 ottobre scorso a Roma, ha dichiarato: “La transizione energetica, se non gestita in modo serio, pragmatico e intelligente, può portare a situazioni difficili [...]. È pericoloso trattare questioni così complesse in modo semplicistico: senza ragionamenti, senza capire quali saranno gli impatti sulle imprese, sui lavoratori, sui Paesi”.

Il “Green New Deal” è un cammino molto lungo, graduale e complesso da affidare a una governance multipolare vasta e coesa e a scienziati autentici e indipendenti, rifuggendo da istanze populistiche e demagogiche, pubblicizzate da giovanissimi testimonials, teleguidati forse da gruppi di interesse obliqui.

L’Unione Europea pesa il 7% sulle emissioni globali e anche se riducesse le proprie emissioni entro il 2030 del 55% (rispetto al 1990), le emissioni mondiali si ridurrebbero di un marginale 1%. Da qui l’esigenza, per una realistica ed efficace transizione ecologica, di coinvolgere nella ricerca scientifica, nelle decisioni politiche e nei processi applicativi concreti relativi i grandi player internazionali, gli Usa, la Cina, che ormai domina il mercato delle rinnovabili e delle batterie elettriche, l’India, la Russia e la Grande Eurasia. Cina e India, le due superpotenze demografiche, sono responsabili delle emissioni di gas serra mondiali, rispettivamente del 24,7%, (prima nel mondo) e del 7% (terza al pari dell’Europa), dopo gli Usa con il 12,3%. Mentre alla Russia spetta il 4%.

Occorre trovare un consenso universale che contemperi in modo realistico gli interessi delle economie, delle strutture industriali e dei portafogli energetici dei vari Paesi. A tal fine, la Conference of parties denominata COP26, la Conferenza annuale delle Nazioni Unite, che si svolgerà a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre prossimi, dovrebbe essere un’occasione da non perdere e riconoscere che il gas naturale è indispensabile per una transizione energetica realistica e graduale.

Ma per la transizione ecologica, condizione prioritaria e indispensabile è cambiare la prospettiva antropologica ed effettuare una rivoluzione economica copernicana che metta al centro il lavoro e la persona: un’economia umanistica.

Abbiamo quasi raggiunto i limiti fisici e cognitivi dell’espansione umana, saturando progressivamente gli ecosistemi terrestri e marini con i rifiuti delle nostre attività economiche e sociali. Perciò siamo obbligati a rinunciare al consumismo, l’illusione che sia possibile mantenere un livello di consumi crescente nel tempo, per noi e per le future generazioni, semplicemente facendo le stesse cose in modo più pulito ed efficiente grazie a un progresso tecnologico illimitato che, peraltro, non rappresenta la principale soluzione al problema ecologico della nostra specie.

Secondo il rapporto Oxfam Confronting carbon inequality del settembre 2020, redatto dallo Stockholm Environment Institute, che si occupa solo delle emissioni più recenti che vanno dal 1990 al 2015, l’1% delle persone più ricche emette più CO2 della metà dell’umanità più povera. Per la precisione, le 63 milioni di persone che nel mondo guadagnano più di 100 mila dollari emettono ogni anno il 15% dei gas climalteranti, mentre i 3,6 miliardi di persone che se la cavano con meno di 2 mila dollari l’anno, non arrivano a emettere più del 7%. Allargando l’orizzonte, chi guadagna più di 35 mila dollari, cioè il 10% della popolazione mondiale, emette invece la metà del gas serra.

Sarà necessario uscire con urgenza dal consumismo per salvare noi stessi e il nostro Pianeta.

Ricordiamo che l’attuale modello di produzione e consumo, cosiddetto “take-make-use-dispose”, è incompatibile con la sostenibilità dello sviluppo. L’obiettivo della sostenibilità è quindi un driver cruciale dell’innovazione, intesa nella sua accezione più ampia, da quella che riguarda processi e prodotti, a quella che investe i modelli di business e processi organizzativi, includendo le relazioni con gli stakeholder.

Nell’ambito di tale innovazione va inserita la transizione digitale. Fra gli esempi che danno evidenza di come una tecnologia digitale (in questo caso l’intelligenza artificiale) assicuri maggiore sostenibilità (specificatamente, l’implementazione dell’economia circolare) vi è l’attività di Ellen MacArthur Foundation, il cui Ceo, Andrew Morlet, è qui da noi con un importante messaggio.

A tale proposito riteniamo molto importante il rapporto pubblicato dalla Commissione Europa nel gennaio di quest’anno, dal titolo Industria 5.0. Verso un’industria europea sostenibile, umano-centrica e resiliente. Questo riconosce la possibilità per l’industria di raggiungere obiettivi sociali, al di là della creazione dei posti di lavoro e della crescita, così da diventare creatore di una solida prosperità, operando in modo tale che la produzione rispetti i limiti del nostro pianeta e ponendo il benessere dei lavoratori al centro del processo produttivo. All’industria 5.0, che rappresenta una rivoluzione più culturale che tecnologica, non basta utilizzare le tecnologie abilitanti e in parte presenti già nell’industria 4.0, come l’interazione uomo-macchina individualizzata, i materiali intelligenti, i digital twin e la simulazione industriale, l’Intelligenza Artificiale, le tecnologie di Big Data Analytics e quelle per la smart energy: essa vuole utilizzarle nel rispetto delle persone e dell’ambiente e come supporto per affrontare cambiamenti geopolitici e le catastrofi naturali.

La Terra si è già molto ammalata nel corso dei tempi, l’ultima volta sembra sia stato 250 mila anni fa. Ma allora noi umani ancora non esistevamo. Ora invece ci siamo e abbiamo il dovere di compiere una nuova rivoluzione copernicana per un’economia umanistica. Se non saremo capaci di farlo, peggio per noi: siamo solo lo 0,6% delle specie viventi, e se spariamo non se ne accorgerà nessuno.

Ma siamo certi che in una prospettiva geopolitica multipolare che va dall’oceano Atlantico al Pacifico, i vari Paesi condivideranno obiettivi e azioni per la transizione ecologica e digitale e ne guideranno e garantiranno la loro applicazione, coalizzando la creatività delle persone, delle comunità e delle imprese. Riusciremo insieme a vincere questa scommessa epocale per un’economia umanistica e per raggiungere un accordo razionale e creativo fra umano e natura. Un contributo importante può e deve darlo la diplomazia del business che, con la sua struttura industriale, commerciale, finanziaria ed economica internazionale ha il potere e il dovere di far condividere alla sovrastruttura politica e geopolitica globale l’urgenza di un’alleanza multipolare per assicurare la salvezza del nostro pianeta, la sicurezza e la prosperità dell’umanità.

Includere, condividere e agire deve essere la nostra stella polare verso una prosperità che deve essere condivisa da tutti, indipendentemente dalla nazionalità, dal genere e dal livello sociale. Bisogna liberare il pensiero, imparare ad aprirci agli altri, abbandonando l’arroganza di essere noi, e soltanto noi, la misura delle cose e degli uomini con la pretesa dell’autoreferenzialità, in primo luogo intellettuale.

Quando incontriamo le altre persone, non gettiamo su queste uno sguardo venato di esotismo o di estraneità, perché queste persone sono lo specchio di ciò che siamo noi.

Grazie della vostra attenzione e Buon lavoro.



 

La Redazione de l'AntiDiplomatico

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