Perché la Nuova via della Seta cinese non è il Piano Marshall 2.0

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di Diego Angelo Bertozzi* per Marx21.it



Diventa ormai sempre più difficile sostenere una tesi molto diffusa, soprattutto in Occidente, secondo la quale con la Belt and Road Initiative (Bri) ci troveremmo di fronte ad una versione cinese del Piano Marshall. Vale a dire a quel progetto di assistenza economica che gli Stati Uniti misero in piedi al termine della seconda guerra mondiale per risollevare economicamente l’Europa occidentale e, al contempo, contrastare una possibile avanzata delle sinistre comuniste, in linea con le indicazioni  del rapporto Clifford-Elsey: di fronte a partiti comunisti forti e ben organizzati e alla strategia di Mosca volta all’infiltrazione e alla conquista del potere dall’interno, la risposta americana doveva essere diretta alla “creazione di un forte rapporto di interdipendenza tra i Paesi minacciati e tra di essi e gli Stati Uniti” e a riguardo non poteva esserci altra soluzione per consolidare un blocco occidentale se non attraverso un programma di assistenza economica [Mammarella G., 1990, p. 24-25].




Sebbene goda di maggiore consenso tra i media occidentali, il richiamo al piano Marshall e ad una sua nuova declinazione cinese è stato introdotto anche nella stessa Cina da un noto economista come Xu Shanda, membro della Conferenza consultiva del popolo cinese, che nel 2009, di fronte al rallentamento delle esportazioni cinesi causate dalla crisi economica, aveva lanciato proprio l’idea di un “piano Marshall cinese” per rispondere ai bisogni interni attraverso un massiccio piano di investimenti all’estero condotto dal governo cinese attraverso l'istituzione di un fondo di assistenza e cooperazione internazionale in base al quale il governo cinese fosse responsabile dell'emissione di prestiti, la concessione di prestiti governativi per aiutare le imprese nazionali con eccedenze di produzione a diventare globali e coordinando gli sforzi per l'internazionalizzazione dello Yuan come mezzo di pagamento sempre più accettato [Ling J., 2015].


Fascino o meno del richiamo, ad oggi non possiamo non soffermarci sulle evidenti differenze. Il piano Marshall in quanto iniziativa anche infrastrutturale, nata in un contesto di immane distruzione post-bellica, aveva una portata geografica limitata, di fatto ben definita nei suoi confini, un sistema di regole ben definito, un’autorità governativa ad hoc creata per verificarne gli sviluppi. Tutti aspetti che non compaiono nel progetto cinese, per il quale è persino difficile valutare una stima totale dei costi, tanto che si leggono previsioni che vanno da 1 a 8 trilioni di dollari, in base alla scadenza che si preferisce stabilire. Al valore di oggi, il piano di Washington varrebbe, tutto compreso, “solo” 135 miliardi di dollari.


Ma al di là del mero conto economico e della diversa architettura che li contraddistingue, a marcare la differenza è il dato politico e la filosofia che li sorregge perché ben il 75% della somma stanziata è andato a soli cinque Paesi (Gran Bretagna, Francia, Germania Ovest e Olanda) divenuti subito dopo i membri principali della Nato.  Come ricorda il filosofo e storico Domenico Losurdo, l’iniziativa di Washington si presentava anche sotto forma di ricatto nei confronti dell’Urss e dei Paesi di orientamento socialista: per ricevere capitali, tecnologie e partecipare a scambi commerciali era chiesto di “aprire la loro economia agli investimenti occidentali, i loro mercati ai prodotti occidentali, i loro libretti di risparmio agli amministratori occidentali”, di accettare, nella sostanza, “la penetrazione economica e mediale” dei paesi che si apprestavano a costituire la Nato [1].


L’intervento economico, sommandosi ad altri programmi in altri ambiti delle relazioni transatlantiche, concorse alla formazione di una trasversale élite atlantica e filostatunitense e di una sempre più solida egemonia americana in Europa. [Del Pero M., 2017, p. 289-90].  


Per lo storico statunitense James Peck (Università di New York) a differenza del Piano Marshall “che era politicamente orientato sul contesto europeo per scardinare ogni sorta di gruppo di opposizione e ansioso di lottare contro il comunismo, questa iniziativa [la nuova Via della Seta ndr] non ha un simile fine politico ed è molto più centrata sull'apertura di relazioni con altre culture, politicamente ed economicamente, senza esigere che esse si conformino a norme e metodi cinesi” [2]. Va infatti rilevato come alla Belt and Road i diversi Paesi siano chiamati a partecipare indipendentemente dal regime politico scelto o dal sistema economico che li caratterizza o dalle organizzazioni regionali o dalle alleanze militari che li vedono coinvolti e anche dal livello di sviluppo economico e tecnologico che li contraddistingue, visto che si va dalla Gran Bretagna al Nepal, passando dall’Etiopia e dalla Birmania. Pechino non manca infatti di ribadire come alla base di essa ci sia il rifiuto dell’imposizione di un modello politico ed economico e come il fine sia proprio quello di evitare, grazie alla cooperazione e al dialogo tra diversi, la restaurazione di un clima da guerra fredda.


Si tratta di una differenza che è ben chiara anche a chi si occupa sul terreno economico e aziendale della costruzione di ponti con Pechino. Tra questi c’è Marco Marazzi, promotore del progetto Easternational, un gruppo di lavoro che si propone di promuovere i processi di integrazione economica tra Europa e Asia, oltre che esperto di diritto societario e commercio internazionale per la società Baker McKenzie e già vice presidente della Camera di Commercio dell'Unione Europea di Shanghai. In una recente intervista lo ha sottolineato: “La Cina negli ultimi dieci anni è passata dall'essere uno dei Paesi che ricevevano più investimenti esteri a imporsi come uno dei maggiori esportatori di capitali. Un processo di going-out, per usare un termine tecnico, un'apertura verso l'esterno che è diventata un vero e proprio obiettivo politico: il presidente Xi Jinping vuole fare di questo progetto il suo lascito al mondo. Ma non stiamo parlando di un nuovo Piano Marshall, anche se certo anche la Raod and Belt Initiative ha un obiettivo geopolitico, ma allora si trattava di interventi più specifici e contestualizzati, qui invece sono in gioco piani a lungo termine, che hanno a che fare con quel macro-continente chiamato Eurasia da dove arriverà la crescita del futuro. I cinesi si sono detti: 'miglioriamo la connettività all'interno di quest'area', con interventi infrastrutturali su porti, ferrovie, parchi logistici, vie di navigazione esistenti e nuove, e allo stesso tempo con investimenti sull'energia e la tecnologia, sviluppando anche quei Paesi che si trovano lungo del traiettorie interessate dal progetto" [3].


[1]             Intervento presentato  al Forum «Cina e Ue. I nodi politici ed economici nell’orizzonte della “nuova via della seta” e di una “nuova mondializzazione”», Roma, 13 ottobre 2017.

[2]             Xinhua, “China’s “Belt and Road” Initiatives Roll On”, 14 febbraio 2015

[3]             Micoluppi B., Marco Marazzi: "La Belt and Road e quell'Eurasia da cui verrà la crescita del futuro”, Unione Sarda, 15 gennaio 2018


*Storico, saggista. Autore di "Cina, da Sabbia informe a potenza globale" (Imprimatur)

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