Intervista esclusiva all'ex ministro Hugo Moldiz: «In Bolivia, i movimenti popolari tornano protagonisti»

Intervista esclusiva all'ex ministro Hugo Moldiz: «In Bolivia, i movimenti popolari tornano protagonisti»

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di Geraldina Colotti

Per commentare la grande vittoria elettorale del Mas in Bolivia, abbiamo raggiunto l’ex ministro di Evo Morales Hugo Moldiz, che dal momento del golpe ha trovato asilo nell’ambasciata messicana a La Paz. Avvocato, docente, giornalista, Moldiz è autore di un recente libro intitolato Golde de Estado en Bolivia. La soledad de Evo Morales, edito da Ocean Sur.

Il Mas ha stravinto, i conteggi dicono che il duo Arce-Choquehuanca ha ottenuto oltre il 54% delle preferenze. Qual è la situazione ora? Che analisi fai del voto e come influirà nella composizione delle due camere?

Si tratta di una vittoria storica e di un risultato superiore alle previsioni, benché da maggio tutte le inchieste attribuissero ai candidati del Mas un’intenzione di voto superiore di almeno dieci punti a quella del secondo, Carlos Mesa. Però si vede che le proiezioni nei luoghi dove le inchieste non erano arrivate, nelle zone rurali o in quelle più recondite, la differenza arrivava a 14-15, ed è sempre stato così. Un dato che emerge mettendo a confronto le inchieste sul Mas dall’anno 2005 fino a oggi, è che il cosiddetto voto occulto e quello degli indecisi è sempre andato al Mas, Si può presumere che un certo numero di elettori non abbia dichiarato la propria intenzione di voto, almeno per due ragioni: per vergogna se si trattava di persone di classe media che non vogliono essere accomunate a un partito identificato come un partito dei poveri e per i poveri, oppure per paura, dato il clima di repressione che si è imposto in Bolivia dopo il colpo di stato. Il più delle volte questi sondaggi si sono svolti attraverso internet e non si poteva sapere se fossero reali o se a condurli fosse l’intelligence dei golpisti. A questo si deve aggiungere che la destra ha fatto prevalentemente campagna attraverso le reti sociali o con messaggi audio-video diffusi in rete. Al contrario, il nostro binomio presidenziale ha percorso tutto il paese nonostante le condizioni avverse e complesse che implicavano gravi limitazioni a causa della pandemia e della persecuzione politica. Con oltre il 54% dei voti, risultato dal conteggio ufficiale, il Mas avrà una ampia maggioranza in entrambe le camere, il che dovrebbe evitare i problemi di ingovernabilità che si sarebbero potuti presentare con una maggioranza più ristretta.

Quali sono stati i fattori determinanti per la vittoria?

Direi sostanzialmente due. In primo luogo, la gente ha potuto fare il raffronto dopo un anno di gestione del governo de facto riguardo alla stabilità economica, alla distribuzione della ricchezza, alla capacità di raggiungere ogni angolo del paese, alla crescita economica e all’impegno di tutte e tutti raggiunti nei 14 anni di governo di Evo Morales. Per contro, il governo della dittatrice Añez ha mostrato un risultato pari a zero in termini di crescita economica, di un piano strategico per combattere la pandemia, e un livello altissimo di corruzione, di persecuzione politica, di violenza simbolica e fisica, di disprezzo per i popoli e le nazioni originarie, di una politica generale funzionale al colonialismo. La gente ha fatto il confronto e si è resa conto che, a differenza degli altri partiti, il Mas è l’unico presente a livello nazionale, e quello che può garantire la stabilità economica, politica e sociale. Il secondo fattore ha riguardato il recupero dei settori popolari, perché occorre ammetterlo senza infingimenti: a novembre dell’anno scorso, la stanchezza e il disimpegno dei movimenti sociali era evidente. Questa campagna elettorale è stata molto diversa dalla precedente, animata dall’impegno e da una forte identificazione. Non che, nell’elezione di novembre, non vi fosse identificazione con Evo Morales che è e continuerà a essere il leader storico del processo boliviano, ma negli ultimi anni purtroppo c’è stato un processo di de-politicizzazione. Si è pensato che tutto fosse stato già vinto e si potesse passare, per dirla con Frei Betto, da protagonisti a spettatori. Sono sintomi di un certo rallentamento del processo di cambiamento. Per questo, non possiamo negare che quando Evo Morales è stato obbligato ad andarsene, la gente dei quartieri urbani sia scesa in strada con le bandiere boliviane come se avesse vinto il campionato mondiale. La dittatura è entrata in gioco con una base sociale costruita non intorno a un orizzonte definito, mancanza che è stata una delle cause della sua sconfitta e della nostra vittoria, ma intorno all’avversione per il Mas. Il soggetto-Mas, ovvero il soggetto-popolo è stato così trasformato nel bersaglio centrale della repressione politica e simbolica. Questo risultato indica che il movimento sociale si è ricomposto almeno a partire da maggio-giugno, come si è visto nelle mobilitazioni contadine di agosto. Si nota un soggetto storico della rivoluzione ricostituito, con un maggior livello di autonomia e di autorappresentazione politica che si era andata perdendo. A questo si deve aggiungere la conduzione strategica di Evo Morales, la cui presenza non è mai venuta meno nell’immaginario della gente e del popolo, ma con l’aggiunta di una organizzazione sociale più autonoma, intenzionata a correggere gli errori compiuti e di cui pure era stata responsabile, capace di tornare a essere protagonista. La destra, al contrario, non ha saputo approfittare del vantaggio ottenuto non con il voto, ma con un golpe compiuto in palese violazione della legittimità internazionale. Ha dilapidato rapidamente quel vantaggio. Sarebbe stato diverso se la signora Añez, che aveva due compiti da svolgere – convocare le elezioni e pacificare il paese – non fosse andata da un rinvio all’altro con il pretesto della pandemia. E quanto più dilazionava il voto, tanto più il Mas si è potuto riorganizzare. Suppongo che se le elezioni si fossero svolte a gennaio-febbraio non avremmo avuto le stesse probabilità di vincere, perché allora sia il Mas che i movimenti sociali erano disorientati per quel che era successo. Il governo de facto tanto meno ha pacificato il paese, aggiungendo repressione alla repressione per mano di un ministro dell’Interno, il signor Murillo, che forse pensa di stare ancora nel 19° secolo. Non si rende conto che per qualunque organizzazione che intenda mantenersi a lungo nel potere, l’egemonia, intesa in senso gramsciano va esercitata in dialettica fra consenso e coercizione. Invece Murillo ha provocato rigetto persino nei settori della destra che lo appoggiavano che hanno via via preso le distanze portando al frazionamento della destra. La prova più evidente è data dall’allontanamento di Camacho il dirigente “civico” che ha guidato il golpe contro Evo Morales e che ha coinvolto tutta la destra. Sintomatica anche la presa di distanza di Quiroga il quale, benché inconsistente dal punto di vista elettorale, è un attivista politico della strategia nordamericana nella regione, in prima linea contro il Venezuela, contro Cuba. E lo stesso Mesa, noto pusillanime, si è distanziato dalla signora Añez.

Il Mas ha avuto la maggioranza, ma la destra è molto forte. Che forma prenderà il conflitto di classe e su quali contenuti? Cosa può succedere da qui a metà novembre, quando assumerà l’incarico il nuovo presidente?

La situazione da qui a novembre appare complicata per il nuovo governo, che ha come compito principale quello di recuperare il processo di cambiamento. Si trova di fronte a un’economia praticamente paralizzata, quasi distrutta. Arce ha detto che ci vorranno per lo meno un anno e mezzo o due per recuperare il livello che la Bolivia aveva raggiunto prima del golpe. Il nuovo governo dovrà affrontare una duplice sfida: quella determinata dalla pandemia, ma anche quella di procedere al necessario e salutare ricambio nella gestione politica, con il conseguente corredo di inesperienza nella gestione. Ci sono anche gli strepiti di quell’estrema destra che vorrebbe incendiare il paese, però non esistono le condizioni perché questo avvenga. C’è stato il riconoscimento internazionale del voto, e anche molte delle frazioni di destra lo hanno fatto. Ovviamente, sia la destra che gli Usa fanno il loro mestiere, cercheranno di destabilizzare la gestione di Arce, ma questo non produrrà risultati nell’immediato, e il nuovo governo può usare questo tempo a suo favore.

Come tu hai sottolineato, restano alcuni nodi importanti da definire, a partire da quello economico. Quali sono le proposte in campo?

Ci saranno probabilmente due tempi: un primo di carattere per così dire conservativo, nel senso che si dovrà recuperare quel che i golpisti hanno distrutto, durante il quale sarà un po’ difficile chiedere al nuovo governo di approfondire qualcosa che occorre ricostruire daccapo. E un secondo tempo nel quale io spero si approfondisca il processo di cambiamento per passare da uno stadio di post-neoliberismo al post-capitalismo. La critica più importante che possiamo muovere al governo di Evo Morales è quella di essersi trasformato in un amministratore straordinario del post-neoliberismo, di aver fatto un salto dal neoliberismo al post-neoliberismo, ma di essersi progressivamente accomodato nella condizione di straordinario amministratore del modello post-neoliberista, allontanandosi da una prospettiva di cambiamento post-capitalista. Un tema, ovviamente, complicato nelle condizioni avverse in cui si trovano la sinistra e il progressismo negli ultimi anni a causa della controffensiva imperialista. Tutto dipenderà, io credo, che in questo passaggio da un primo momento necessariamente conservativo a un secondo di approfondimento del processo, si tengano distinti i due piani: quello dello Stato e quello del potere popolare che deve costruire i propri meccanismi. Occorre, cioè, una doppia rivoluzione: dall’alto e dal basso. Quando si verifica solo dall’alto, si tende a separarsi dal popolo e si lasciano aperte crepe in cui si può incuneare l’azione del nemico. Ovviamente questo implica una ricomposizione dei movimenti sociali basata anche su una loro maggior maturità e autocritica, su una maggior capacità di separarsi dagli interessi corporativi per guardare a quelli generali a lungo termine.  Un altro tema centrale, sarà determinato dalla forma concreta in cui si esprimerà la lotta di classe in Bolivia.

In Bolivia si discute molto circa un possibile rientro di Evo Morales, che ha una trentina di processi pendenti, il primo dei quali si svolgerà il 27. Come vedi la situazione?

Morales, come qualunque cittadino, ha diritto di ritornare nel suo paese. Ora, si tratta di decidere quale sia il momento migliore, perché, nonostante il grande appoggio che ha nel paese occorre tener conto della campagna politica e mediatica della destra per nuocere fin dai primi giorni al governo di Arce. È una decisione politica che Evo Morales prenderà, sicuramente con maturità e esperienza, nei prossimi giorni.

Un certo progressismo moderato dell’America Latina, principalmente dell’Argentina, ma anche europeo, sta già cercando di attirare il nuovo governo verso alleanze più “morbide”, che impediscano il ritorno di quelle ideate da Cuba e Venezuela durante il felice ciclo dei governi progressisti e socialisti. In particolare, si cerca di isolare il Venezuela e di screditare il processo elettorale del 6 di dicembre. Quale sarà, a tuo parere, l’atteggiamento di Arce?

La vittoria in Bolivia è importante perché conferma che non si è data nessuna fine del ciclo progressista, e che anzi questa possa incidere nelle prossime scadenze: in Cile, nel referendum riguardo l’Assemblea Nazionale Costituente, in Ecuador nel febbraio prossimo… È importante per dare impulso ad altri popoli nel cammino di ricostruzione e di recupero dello spazio perso negli ultimi anni, anche in Venezuela, a causa degli attacchi subiti dopo la morte di Chavez che, insieme a Fidel, ha indubbiamente rappresentato il motore del processo di emancipazione in America Latina. Un processo sempre difficile e tortuoso per la vicinanza geografica del potere imperialista più grande del mondo, quello degli Stati Uniti. Tuttavia, non credo che questo processo di recupero avvenga a breve termine, e per questo ci saranno segnali contraddittori da parte dei governi progressisti e di sinistra del continente, fermo restando la posizione di Venezuela, Cuba e Nicaragua. E questo sia per fattori di carattere esterno che interno. Il rovesciamento di Evo Morales non è stato un incidente, ma il risultato di due elementi: il rallentamento del processo di cambiamento, che per me ha pesato di più, e la destabilizzazione imperialista. Ma è chiaro che nessuna strategia di destabilizzazione può funzionare se il primo elemento, determinato dalla capacità di organizzazione, dalla coscienza politica, dalla capacità di dare una risposta, è forte. Evidentemente, il golpe si è appoggiato sulla debolezza del primo elemento. Quindi, torno a ripetere, è fondamentale incrementare il processo di ri-politicizzazione, di auto-organizzazione, di formazione politica del nostro popolo, l’unica maniera per avere un maggior impatto in campo internazionale, è approfondire il processo di cambiamento.

Che succederà agli ex ministri di governo che, come te, sono rifugiati nell’ambasciata messicana a La Paz?

Siamo in attesa. Già Lucho Arce si è detto disponibile a fornirci un salvacondotto immediato. Non avevamo nessun motivo per andarcene, se in Bolivia non fosse stato distrutto lo stato di diritto, se non fossero state costruite accuse e menzogne nei nostri confronti, se non si fosse messa a rischio la nostra vita. Non abbiamo nessuna ragione per lasciare il paese. Oggi con il nuovo governo le cose cambieranno radicalmente, vogliamo solo guardare negli occhi la gente, il paese, smontare apertamente le accuse false contro di noi, che sono di natura politica e poggiano su un assoluto vuoto giuridico.
 

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