"Generazione Antidiplomatica" - Abolire la guerra in Ucraina: sarà la pace imposta dall’alto o costruita dal basso?

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"Generazione Antidiplomatica" - Abolire la guerra in Ucraina: sarà la pace imposta dall’alto o costruita dal basso?

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Articolo di Fabio Ashtar Telarico - Dottorando e ricercatore presso l'Università di Lubiana

Per diversi decenni, in Europa, intellettuali e persone comuni han creduto la guerra una patologia esclusiva di terre lontane. Il ministro degli esteri dell'Unione Europea (UE) ha riassunto questo modo di pensare con fredda e efficace lucidità paragonando il pacifico "giardino" dell'Europa civilizzata alla "giungla" che la circonda e dove, per parafrasare il celebra filosofo inglese Thomas Hobbes, homini hominis tigris. Eppure, ciò che si riteneva un affare lontano, proprio della “giungla”, è diventato terrore quotidiano per milioni di persone in Ucraina da quasi un decennio oramai. Questo sviluppo storico non può condurre che a riaffermare celebre affermazione di Albert Einstein che “la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire” o quella del filosofo cristiano Erasmo da Rotterdam stando al quale “la pace più ingiusta è meno dannosa della più giusta guerra”. Ma tale verità, disarmante nella sua semplicità, sembra smarrita in questa Europa travolta da una retorica militarista incapace di immaginare un’alternativa al conflitto e una risoluzione che non richieda un ulteriore tributo di sangue e sofferenza. Le decisioni dei leader, spesso fondate su calcoli di potere e non su valori universali, dimostrano la facilità con cui la democrazia può trasformarsi in un sistema prone al militarismo più che affascinato dall’ideale di una pace giusta e duratura.

In realtà maggioranze relative di Europei e Italiani si dichiarano consistentemente contrari alla guerra in pratica come in teoria. Non da ultimo, un autorevole sondaggio dell’Istituto di Studi Politici Italiano (ISPI) ha rivelato che la fine della guerra in Ucraina è in cima alle lista delle speranze di quasi la metà degli italiani con il 42% degli intervistati favorevole all’idea che Kiev debba accettare un accordo, anche a costo di rilevanti concessioni territoriali. Mentre una ricerca annuale di Swg registra che l’87% degli italiani è contro politiche militariste, il massimo da 15 anni. Ma tale istinto pacifista appare fuori fase rispetto a istituzioni “democratiche” intente a, come sempre più spesso si sentire dire, educare il corpo elettorale più che a eseguirne il volere. D’altronde, l’opera di riallineamento del continente verso l’accettazione dell’inevitabilità e giustezza della guerra è amplificata da un panorama politico e mediatico dove le voci pacifiste sono sempre più rare, relegate ai margini del dibattito pubblico e, non di rado, del tutto assenti. Ripetutamente, i detrattori della guerra hanno alzato la testa per far valere la superiorità morale delle proprie convinzioni, come il progetto Pace Terra Dignità di Michele Santoro. Ma i loro argomenti resteranno note a piè di pagina nella storia della guerra in Ucraina, voci pacate soverchiate dallo stridio delle catene di montaggio dell’industria bellica e le invocazioni alla patria dei suoi tutori politici. Infatti, secondo l’Istituto di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), la spesa militare europea ha raggiunto i 250 miliardi di dollari nel 2022, segnando un incremento del 13%, il più marcato dall’era post-Guerra Fredda.”. Questo rappresenta l'aumento annuale più marcato dall'era post-Guerra Fredda e avviene al costo di tagli già operati o previsti alla spesa per altri servizi pubblici, inclusi istruzione e sanità.

A Bruxelles, nel più influente forum politico del Vecchio Continente, il silenzio che circonda la parola pace non è nemmeno assordante, ma frangi-timpani. L’Europa unita, nata al grido di “mai più guerra”, sembra dimenticare le sue radici oggi come durante le guerre di Jugoslavia. La vocazione all’amicizia tra popoli e ideali ridotta, oggi, a un ricordo sbiadito, un disco riscritto dalla logica del riarmamento e della competizione geopolitica. Basti pensare al progetto Erasmus, che negli anni ha rappresentato un simbolo concreto di unione e scambio culturale tra le nuove generazioni nell’UE e oltre, ma che oggi diventa strumento di sanzione internazionale. Se l’Europa di Adenauer e De Gasperi aveva posto la pace al centro del progetto d’integrazione, oggi Bruxelles sembra aver sacrificato questo principio sull’altare delle dinamiche geopolitiche. Questo paradosso – una comunità costruita per la pace che ora appare incapace di difenderla – riflette una crisi di identità profonda, che rende ancora più urgente il bisogno di voci nuove, capaci di immaginare una strada diversa. Sembra quasi l’ennesima prova dell’ironia del fato che esse dovessero emergere non nel “giardino” Europa, ma nel cuore della “giungla” e a ridosso del fronte.

Nelle strade di Kharkiv e Donetsk oramai ridotte in un groviglio di macerie e paura, decine di palazzine sventrate si ergono come monumenti all’insensatezza del conflitto. L’incessante rombare dei missili, il tuonare dei colpi di mortaio, e l’eco delle sirene fanno da colonna sonora all’interminabile ansia dei combattenti e di coloro che pregano e sperano per ritorno dei propri figli, fratelli, mariti, e padri. Al contempo, il rimbombo delle esplosioni scandisce il ritmo di vite sospese, e troppo spesso spezzate, dei civili costretti a fare da pedine in questa partita di scacchi multidimensionale. Sordi a questa cacofonia, nei palazzi dorati del potere gli scacchisti si scambiano accuse e formulano proclami bellicosi, promettendo la vittoria a ogni costo.

Ma lontano dalle luci dei riflettori c’è chi combatte una battaglia diversa, circondati e resi quasi invisibili dall’acustica e la cinematica della guerra mortifera. Eppure gli attivisti per la pace continuano a lavorare sia in Russia sia, sebbene sia difficile a credersi, in Ucraina. Spinti da un ideale più grande di loro stessi, una legione di attivisti, perlopiù senza volto e senza nome, continua a mettere a repentaglio la propria carriera, libertà, e incolumità per tendere una mano a chi soffre, costruire ponti tra comunità spezzate e opporsi al cinismo della guerra. Mentre i media e la politica nostrani e non solo dirigono l’attenzione del pubblico su presidenti e generali o sui movimenti millimetrici e quasi ciclici del fronte, questi militi ignoti dell’antimilitarismo si adoperano per creare quella pace che rima col sogno dello statista francese Charles de Gaulle di un’Europa dall’Atlantico agli Urali. Messi di fronte alla tragedia della guerra, giornalisti come la russa Marina Ovsyannikova sfidano la macchina della guerra sfruttando ogni spazio di libertà, inclusa l’imprevedibilità delle dirette televisive. Dopo essere stata trattenuta in custodia cautelare senza diritto a un legale, la giornalista è stata rilasciata ed è ora in esilio a Parigi. Ma coloro operano lontano dalle telecamere non sono quasi mai altrettanto fortunati. Persone comuni come Alexander Demidenko pagano con la vita per la propria incrollabile dedizione all’aiutare chi è in difficoltà offrendo una mano amica e fungendo da scudo umano nonostante i rischi che ciò comporta in un paese in guerra. Mentre dall’altro lato del fronte, in un’Ucraina lacerata dalla guerra e da una crescente militarizzazione della società, il segretario esecutivo del Movimento Pacifista Ucraino, Juri Šeliaženko, continua a denunciare il militarismo come nemico della libertà invocando la pace come unica via per la democrazia. Il costo dell’esercizio del diritto d’espressione è stata la perquisizione illegale del suo appartamento da parte dei servizi di sicurezza, che rispondo direttamente al Presidente Volodymyr Zelensky, seguita dopo pochi giorni dall’accusa di aver “giustificato l'aggressione russa”. Nel silenzio dei media e politici europei, Šeliaženko è da più di un anno prigioniero di coscienza, condannato per il suo pacifismo in un paese democratico.

Finalmente, nel 2025, il fronte sembra avvilupparsi attorno a un fragile equilibrio, segnato negoziati frammentari e una tensione costante che rende ogni compromesso precario. Le comunità locali restano devastate, mentre le potenze globali monitorano il conflitto più per interesse strategico che per un sincero desiderio di porre fine allo spargimento di sangue. Ma la pace che il Presidente statunitense Donald Trump e gli altri scacchisti promettono è una tregua armata, instabile, costruita su compromessi che lasciano intatte le cause profonde del conflitto. Ancora hanno da rendere giustizia agli attivisti per la pace che continuano a lottare contro la triste condanna dell’evangelico nemo propheta in patria sua. Etichettati come traditori nei propri paesi, i pacifisti ucraini e russi si trovano perseguiti da sistemi giudiziari che anziché servire il diritto dei popoli ossequiano l’impersonale macchina della guerra. Sotto minaccia d’essere reclusi, o già condannati alla galera, gli unici veri fautori della pace continuano a coltivare e diffondere il seme di una speranza flebile ma d’infinito valore: una pace sincera e duratura, capace di guarire le ferite del conflitto e ricostruire un nuovo avvenire. La storia giudicherà non solo gli scacchisti nei palazzi del potere, ma anche il coraggio degli invisibili: coloro che credendo contro ogni probabilità che la pace sia possibile ci invitano a riflettere su quale ruolo possiamo svolgere per sostenere la pace, riconoscendo che ogni piccolo gesto può contribuire a far rinsavire un modo sempre meno equilibrato. Se mai arriverà, la vittoria vera, quella della pace, apparterrà a loro, esemplari in vita d’estinzione di un’umanità capace di rammendare le ferite della storia.



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