Ecuador in fiamme: la protesta indigena non si arresta nonostante la repressione

Dopo l'uccisione del contadino indigeno Efraín Fuerez, colpito alle spalle dai militari, le proteste si intensificano. La richiesta di giustizia si unisce alla rabbia per la fine dei sussidi

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Ecuador in fiamme: la protesta indigena non si arresta nonostante la repressione

Quito è una città blindata. Da oltre venti giorni, le strade della capitale ecuadoriana risuonano degli slogan di migliaia di manifestanti che chiedono a gran voce le dimissioni del presidente Daniel Noboa. "Fuera Noboa, fuera", "No somos terroristas", "Nadie nos va a silenciar": sono i cori di un malessere sociale crescente, che ha origine nella revoca del sussidio al diesel e nell'aumento dell'IVA, misure economiche contro le quali la Confederazione di Nazionalità Indigene dell'Ecuador (CONAIE) ha lanciato uno sciopero nazionale.

Ma quella che era iniziata come una protesta contro le politiche del governo si è trasformata in una crisi profonda, segnata da una repressione sempre più violenta e da morti che pesano come macigni sulla coscienza di un paese già stremato. Le comunità rurali, in particolare nelle regioni di Imbabura e San Miguel del Colón, sono diventate epicentri di una tensione insostenibile. Secondo denunce della Commissione Ecumenica per i Diritti Umani, i militari avrebbero utilizzato la copertura di "convogli umanitari" per condurre irruzioni in proprietà private, in quello che viene descritto come un uso sproporzionato della forza contro cittadini che esercitano il legittimo diritto di protesta.

La situazione è esplosa il 28 settembre, quando in una comunità della provincia di Imbabura si è consumata una tragedia che ha dato un volto alla repressione. Efraín Fuerez, un contadino Kichwa, è stato ucciso a colpi d'arma da fuoco. Le immagini diffuse online mostrano l'uomo colpito alla schiena mentre cerca di fuggire, per poi essere raggiunto e picchiato brutalmente, insieme a chi tentava di soccorrerlo, dai militari. Poche ore dopo, Efraín è morto in ospedale a Cotacachi.

I suoi funerali si sono trasformati in un'ulteriore, straziante, protesta. La bara, avvolta nella bandiera wiphala, è stata accompagnata da una folla che gridava "por Efraín: verdad, justicia y reparación". Tra le voci, quella spezzata di sua moglie, Maria Guitarra Torres, ha lanciato un appello disperato: "Giustizia, giustizia per mio marito. La sua morte non può essere vana. Il nostro paese deve migliorare, si sta distruggendo".

 
 
 
 
 
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La morte di Fuerez non è un episodio isolato. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano che il regime di Noboa ha già causato oltre 47 vittime, agendo in una clima di totale impunità. E invece di spegnere le proteste, il sangue versato ha gettato benzina sul fuoco. Lo sciopero Nazionale prosegue e si espande. Il quartiere di San Miguel del Comun a Quito ha visto i primi blocchi stradali, mentre a Pastaza, nella regione amazzonica, grandi mobilitazioni hanno scandito lo slogan "solo il popolo salva il popolo".

Sullo sfondo, rimangono le ragioni economiche della rivolta. Il Decreto 126, secondo i movimenti sociali, non fa che precarizzare ulteriormente la vita dei settori popolari, aumentando i prezzi e concentrando la ricchezza nelle mani dei grandi imprenditori. Parallelamente, avanzano i progetti petroliferi nelle terre ancestrali indigene, con il conseguente sfollamento delle comunità e il degrado ambientale dell'Amazzonia.

Mentre la polizia nazionale riporta 121 arresti, compresi minorenni, e le organizzazioni internazionali sollecitano un dialogo per evitare un'ulteriore escalation, il governo Noboa sembra sordo. La risposta continua a essere la militarizzazione e la forza bruta, in uno scontro che sta lacerando il paese e in cui la richiesta di giustizia per Efraín Fuerez e tutte le vittime della violenza di Stato si leva sempre più alta, diventando il grido di un intero popolo in lotta.

La Redazione de l'AntiDiplomatico

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