Draghi e "i rapporti con gli Usa": conteremo veramente di più in Europa?
Nei giorni scorsi ho più volte richiamato l'attenzione sulla "doppia fedeltà" (agli Stati Uniti e alla Ue) che il governo Draghi è chiamato a certificare per conto del nostro Paese.
Ho anche insistito sul fatto che le due fedeltà non stanno sullo stesso piano: quella nei confronti degli Stati Uniti sta un gradino abbondante più in alto dell'altra.
Se ne volete conferma andate a leggere l'articolo di Fubini sul Corriere di lunedì 15 febbraio ("L'ex governatore e i rapporti con gli Usa. Ora l'Italia conterà di più in Europa" , pagine 8 e 9). Dopo avere richiamato le numerose ragioni di conflitto interimperialista (ovviamente Fubini non lo chiama così) fra le sue sponde dell'Atlantico (a partire dall'accordo con la Cina voluto dal duo Merkel Macron senza chiedere il "permesso" al dominus americano), Fubini ricorda gli ottimi rapporti dell'ex consulente di Goldman Sachs, nonché nostro nuovo presidente del consiglio, con l'establishment americano, rapporti che dovrebbero consentirgli di ridare peso all'Italia nel concerto europeo, affidandole il ruolo di agire da contrappeso alle velleità autonomiste di Francia e Germania.
Insomma l'idea è che l'Italietta, che conta men che zero nel contesto geopolitico globale, potrebbe ricavarsi un cantuccio sfruttando le contraddizioni fra i due padroni cui deve rispondere (ovviamente a fianco, o meglio a rimorchio. del più forte). E' la solita vecchia storia di una politica estera che, dalla ottocentesca Guerra di Crimea al Secondo conflitto mondiale, ci ha sempre visti accorrere in soccorso del presunto vincitore, anche se va detto che non sempre ci è andata bene e, quando la scelta è stata sbagliata, si è pagato un prezzo salato (per le classi subalterne s'intende, le élite in un modo o nell'altro se la cavano sempre).