Contro il “golpe” in Perù, in difesa del legittimo Presidente José Pedro Castillo

Contro il “golpe” in Perù, in difesa del legittimo Presidente José Pedro Castillo

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Guido Leonardo Croxatto, è un avvocato specialista in Diritti Umani con ulteriore specializzazione in Diritto Pubblico Costituzionale sul piano internazionale (Cile, Spagna, Germania) ed è, tra l’altro, Direttore del Tribunale Internazionale per i Diritti Umani per la ULNA (Universal Declaration of Human Right). Attualmente, Croxatto guida il gruppo di avvocati che in Perù difende José Pedro Castillo, Presidente della Repubblica del Perù dal 28 luglio 2021 al 7 dicembre 2022 e poi deposto da un “golpe” delle forze della destra peruviana. Guido Leonardo Croxatto ha inviato alla redazione di “Cumpanis” questo suo articolo che “Cumpanis” ha tradotto ed invia, con pieno spirito di collaborazione, a “L’AntiDiplomatico”.

di Guido Leonardo Croxatto, traduzione di Liliana Calabrese, della redazione di “Cumpanis”

Mercoledì 19 aprile, l’allora capo del Ministero dell’Istruzione peruviano, Óscar Becerra, ha dichiarato: “Usciamo da questo pugno di ferro che è la Commissione Interamericana per i Diritti Umani” (CIDH), una frase che rievoca le misure adottate da Alberto Fujimori durante la sua amministrazione dittatoriale negli anni ‘90, quando il Paese abbandonò il sistema.

Lungi dall’essere una mossa isolata o stravagante, il presidente del Congresso peruviano, Jose Williams, un ex ufficiale militare, si è dichiarato favorevole a valutare la decisione di lasciare la CIDH in quanto ha un “pregiudizio che non dovrebbe esistere”. (Un pregiudizio a favore della democrazia e dei diritti umani, un “pregiudizio” a favore della legalità costituzionale). Il presidente del congresso ha ricordato che “il patto di San José genera per noi una serie di blocchi ed è qualcosa che deve essere valutato bene per prendere una buona decisione in merito”.

Queste dichiarazioni, che propongono l’uscita dal sistema interamericano dei diritti umani, sono arrivate appena un giorno dopo che il sindaco di Lima, Lopez Aliaga, lo stesso sindaco che ha penalizzato Amnesty International chiudendo il LUM (Luogo della Memoria, della Tolleranza e dell’Inclusione Sociale) per motivi “amministrativi” proprio nel giorno e nell’ora in cui Amnesty International Perù avrebbe dovuto presentarvi il suo rapporto (un luogo simbolico dove si onora la memoria delle vittime del terrorismo di Stato di Fujimori), e ha proposto di “portare l’esercito nelle strade” perché la situazione sociale sta “andando fuori controllo”.

Il sistema interamericano, perfettibile come ogni sistema, ha permesso di progredire nella cultura della legalità e dei diritti umani in tutta l’America Latina. L’Argentina è stata un buon esempio. Nel caso Simon, della corte Suprema, nel 2005, furono dichiarato nulle, su richiesta di un tribunale interamericano, le leggi della Dovuta Obbedienza e del Punto Fermo, aprendo la pagina più importante della storia argentina: i processi per i diritti umani. (La prima scagionava i responsabili di crimini per “dovuta obbedienza” a ordini superiori. La seconda poneva fine a indagini e procedimenti penali su coloro che erano accusati di violenze sui dissidenti politici, entrambe incompatibili con l’obbligo di uno Stato di consegnare alla giustizia e punire i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, N.d.T.) Anche le sentenze legate ai crimini contro l’umanità in Perù sono state di enorme importanza (Barrios Altos, Castro-Castro, Castillo Petruchi, Gladys Carol Espinoza). Quando si propone di uscire dal sistema interamericano, si cerca anche di costruire l’impunità (il governo ha proposto l’amnistia per i militari accusati di crimini contro l’umanità dopo le esecuzioni extragiudiziali di gennaio in Perù, recentemente denunciate da un rapporto di Human Rights Watch, che sostiene che il governo di Boluarte “sembra essersi voltato dall’altra parte” mentre la polizia uccideva a sangue freddo manifestanti disarmati) di fronte agli omicidi commessi dopo la destituzione di Castillo, contro coloro che chiedevano – tra le altre cose, un’assemblea costituente per porre fine alla costituzione neoliberale “apocrifa” di Fujimori – il suo reintegro.

La maggior parte dei morti si sono avuti proprio nelle regioni impoverite dell’altopiano e del Sud del Paese dove si concentrano gli elettori di Castillo (Puno, Cusco, Ayacucho, Juliaca).

Le uccisioni, frutto dell’uso sproporzionato e criminale della forza, non sono state, però, indiscriminate bensì selettive, come sostiene Lurdes Huanca (in esilio a Londra), colpendo soprattutto le popolazioni autoctone: gli stessi che chiedono, nelle proteste, una nuova Costituzione che li rappresenti (quota indigena) e non la cosiddetta Costituzione “apocrifa” (perché non è stata fatta da un’assemblea costituente, ma dal Congresso dell’epoca, in piena dittatura, e perché fatta in violazione della Costituzione del ‘79 di Velasco Alvarado), come è conosciuta la Costituzione neoliberale di Fujimori. Il tipo di armi e la violenza con cui sono state usate non è stata la stessa in tutte le città del Perù. Ha colpito soprattutto le comunità più povere e le popolazioni indigene.

È paradossale che Alberto Fujimori sia incarcerato per gravi crimini contro l’umanità (omicidi, sparizioni forzate, sterilizzazione forzata di donne indigene povere) mentre la sua legislazione antiterrorista, per la cui applicazione Fujimori è in carcere, oggi continua a essere applicata in Perù per criminalizzare la protesta e perseguire oppositori e dissidenti. Questa normativa antiterrorista, recentemente messa in discussione dall’ONU (che chiedeva di limitarne l’uso per non perseguire indiscriminatamente il dissenso), era già stata contestata da Amnesty International fin dal 1994.

Continua ad essere applicata anche oggi. È addirittura stata ampliata, nel 2019, tramite una riforma frutto di un decreto che ha introdotto una nozione ambigua: quella del “terrorismo indiretto”. Quasi tutto può rientrare in questa categoria: una semplice opinione sui social network, la lettura di un libro di diritto penale “critico”, qualsiasi cosa (cercando di identificare i “terroristi” hanno esibito “prove” come l’illustrazione di un fiammifero e di un martello, un disegno fuorviante fatto dalla polizia stessa per incriminare i “comunisti”) può costituire un potenziale rischio di “terrorismo indiretto”. Per questo motivo vengono violate le libertà civili fondamentali, come la libertà d’insegnamento e la libertà di espressione. I carri armati della polizia sono entrati nell’università San Marcos, replicando immagini che pensavamo non avremmo mai più rivisto nella regione: la polizia che ammanetta a terra gli studenti dell’università pubblica, trattandoli come “terroristi” (fenomeno locale noto come “terruqueo”).

Nulla, nel caso della destituzione di Castillo, ha rispettato il giusto processo costituzionale. La vacanza per incapacità “morale” del presidente soffre di gravi vizi procedurali, come afferma Raquel Fajardo Irigoyen, avvocato dei popoli indigeni, in un ampio rapporto (Rivista ALERTANET, un rapporto giuridico dell’Instituto Internacional de Derecho y Sociedad, IIDS, pubblicato nell’aprile 2023). Non è stata una destituzione conforme al diritto. E questo indipendentemente dall’opinione del suo operato, del suo governo o della sua figura (anche se è stato commesso un crimine o meno). Quello che è certo è che la vacanza per incapacità “morale” permanente non era la figura prevista dalla Costituzione peruviana per casi come quello di Castillo: un’altra figura (l’accusa costituzionale) e un altro processo sarebbero stati appropriati, e altre scadenze non sono state rispettate.

Niente di tutto questo è stato rispettato dal Congresso peruviano che, al contrario, ha disposto una vacanza “espressa” senza nemmeno avere i voti necessari. Castillo è stato destituito con 101 voti, tre in meno di quanto prevede il regolamento. Non c’è stata alcuna mozione. Quando il presidente è stato arrestato su mandato della polizia, insieme ai suoi figli, non era ancora stato rimosso dalla carica, né gli era stata notificata la revoca dell’immunità. L’arresto (in “quasi flagranza”, una figura incostituzionale esistente in Perù, che denaturalizza la figura della flagranza) è avvenuto mezz’ora prima che il Congresso gli revocasse l’immunità. Anche la detenzione è stata, quindi, arbitraria e irregolare. Sono molte le irregolarità commesse nella destituzione di Castillo.

Ciò costituisce una minaccia per la sicurezza giuridica presente e futura del Paese: non risolvere questi vizi procedurali (nascondendoli sotto il tappeto, pensando che indire nuove elezioni possa servire a “coprire” o a nascondere le violazioni commesse) è garanzia di futura instabilità. Il contesto delle violazioni del giusto processo non è un mero “formalismo”. Si tratta di un presidente legittimo. E di un governo successivo (il regime di Boluarte) che cambia anche orientamento politico, incidendo così sui diritti (politici) degli elettori. Sono queste carenze del giusto processo (che alcune democrazie considerano ancora come semplici “formalità” senza importanza “reale” o sostanziale) nella questione della vacanza che vengono tecnicamente discusse. Non sono semplici “formalità” del processo. Il rispetto delle procedure è il cuore di una democrazia (Bobbio). È questo che rende illegittimo l’impeachment e l’incarcerazione di Castillo, il primo presidente contadino della storia del Paese. Non il cosa, ma soprattutto il come della sua rimozione.

Nel diritto c’era una distinzione caduta in disuso, ma utile in questo caso: il diritto formale e il diritto sostanziale. Nella destituzione di Castillo è stato violato soprattutto il primo aspetto: la formalità giuridica e procedurale. L’applicazione di “forme” procedurali, che non sono meno importanti della “sostanza” penale. La base del diritto è la formalità. È il rispetto dei termini, delle mozioni, dei regolamenti. Questa “formalità” ha un significato.

Sembra esserci una linea di congiunzione tra il gruppo di Puebla, guidato da Lopez Obrador, che sostiene con forza una richiesta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per discutere della crisi in Perù, con l’appoggio di altri leader della regione, come i presidenti Petro e Xiomara Castro, oltre a Evo Morales (chiamato a testimoniare per presunti casi di “ponchos rojos” e per aver difeso RUNASUR) e Rafael Correa, esiliato in Belgio a causa delle persecuzioni che sta subendo in Ecuador.

Dall’altra parte, il gruppo di Lima, a cui appartengono Milei, Macri, Bolsonaro e Agnes. È curioso che il governo peruviano vieti l’ingresso di deputati argentini in missione per i diritti umani, ma permetta l’ingresso di rappresentanti della destra xenofoba spagnola (Vox). Razzismo e discriminazione continuano ad esistere nel Paese. Come ha sottolineato Castillo nella sua lettera a Lopez Obrador: il razzismo in Perù non è finito.

Quello che si può osservare in Perù è un ulteriore capitolo di una storia che si sta diffondendo in tutta l’America Latina: la persecuzione giudiziaria di leader popolari come Evo, Lula, Lugo, Correa, Cristina; il caso peruviano non è, a questo proposito, un caso isolato.

Tra quest’anno e il 2026 – ovvero il periodo del mandato di Castillo – i contratti di concessione del Perù risalenti all’era Fujimori scadranno e dovranno essere rinegoziati. Castillo aveva già annunciato che non intendeva rinnovare questi contratti, che favoriscono le imprese internazionali che traggono profitto dalle risorse naturali. Castillo aveva dichiarato di preferire la gestione di un’economia nazionale, come quella del Cile o del Messico, che stanno attualmente nazionalizzando il loro litio. Questo è il motivo alla base della sua destituzione.

Un capitolo a parte dovrebbe essere dedicato al fatto che ci sono deputati – che hanno votato a favore della destituzione di Castillo – che sono stati ministri della Sanità durante la dittatura di Fujimori e hanno effettuato le sterilizzazioni forzate di donne indigene povere, sponsorizzate dall’AMPAEF.

Il fatto che questi criminali della dittatura Fujimori (Alejandro Aurelio Aguinaga) siano ancora oggi dei legislatori (che non stiano in carcere quando i loro crimini sono molto gravi e provati) e che abbiano votato per la destituzione di Castillo – appoggiato, lui, un insegnante di Cajamarca, dall’AMPAEF e dalle associazioni delle vittime delle sterilizzazioni forzate, le donne indigene degli altipiani – è indice del razzismo denunciato da Castillo e da Evo Morales, indicato anche da López Obrador come ragione finale della sua caduta: il razzismo è ancora vivo nella regione.

L’attuale convocazione in tribunale di Evo Morales a Puno lo dimostra. Vogliono che gli indios abbiano paura, che non alzino la voce. Non vogliono che “arrivino a Lima”. Vogliono che gli indios stiano zitti.

Non c’è bisogno di dire che questa mossa, che propone l’uscita del Perù dal sistema interamericano dei diritti umani, arriva solo tre giorni dopo che gli avvocati di Pedro Castillo hanno presentato una misura cautelare alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani. Vale a dire: è già previsto che una decisione avversa al governo al potere non venga rispettata. È per questo che si propone d’ora in poi di “uscire” dal sistema interamericano, definendolo un “pugno di ferro” (Becerra) che ha un “pregiudizio che non dovrebbe esistere” (Williams). Per il fatto di essere un “catenaccio”.

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